il manifesto 18.10.16
L’euro e il gold standard d’accordo con Keynes, meglio di no
La
domanda non è se uscire dall’euro è una cattiva opzione ma se è la
peggiore. Le politiche monetarie di cui ha bisogno l’Italia si fanno
fuori dalla moneta unica
di Antonella Stirati, Maurizio Zenezini
Nella
discussione sulla moneta, Giorgio Lunghini (il manifesto, 29
settembre), si chiede, con comprensibile preoccupazione, quali
potrebbero essere le conseguenze per il mondo del lavoro di una
dissoluzione della moneta unica. Questa domanda non ha risposte facili.
Certo, se ad abbandonare l’euro fosse un paese grande come l’Italia vi
sarebbero ripercussioni sulla zona euro e fasi di instabilità
finanziaria. La domanda, tuttavia, non è se l’uscita dall’euro sia una
cattiva opzione, ma se sia necessariamente la peggiore.
Le
previsioni di quel che potrebbe avvenire non offrono risposte sicure, il
ventaglio degli scenari immaginabili è ampio e gli esiti dipendono
moltissimo dai comportamenti delle banche centrali e dalle azioni dei
governi.
A chi prospetta scenari negativi si deve rammentare che
lo statu quo non ci sta affatto proteggendo dall’instabilità o dal
peggioramento delle condizioni economiche e sociali, ma, al contrario,
tende ad accentuarli. La vicenda dell’euro ha impresso una tendenza
deflazionistica all’economia europea mostrando il suo vero volto nella
terribile gestione della crisi, ed è accompagnata dalla sfiducia
crescente negli organi di governo dell’Unione europea, dalla crescita
dei nazionalismi e di forze reazionarie, dalla chiusura delle frontiere.
In
Italia la situazione è gravida di pesantissimi rischi e sconta da tempo
i guasti delle euro-politiche: deindustrializzazione, disoccupazione
elevata e persistente, erosione dei redditi e dei diritti dei
lavoratori, tagli allo stato sociale, concorrenza fiscale e salariale da
parte di paesi interni all’eurozona.
In questo contesto
l’alternativa euro/non euro dev’essere valutata alla luce dell’obiettivo
prioritario di forze politiche progressiste, quello della piena
occupazione e di migliori condizioni di lavoro. Noi riteniamo che la
crescita dell’occupazione si possa avere solo con una forte ripresa
della domanda, una strategia impossibile nell’attuale palinsesto della
politica economica europea.
La ripresa della domanda non può
iniziare dai consumi o dagli investimenti privati, perché questi non
hanno modo né ragione di ripartire in una economia depressa (gli
investimenti nella eurozona sono molto al di sotto del livello del 2007,
in Italia lo scarto è del 30 per cento). Lo stimolo iniziale può dunque
venire o da una ripresa delle esportazioni o dalla spesa pubblica. Le
esportazioni sono recentemente aumentate verso i paesi extra-eurozona,
grazie alla politica di Draghi che ha fatto svalutare l’euro rispetto al
dollaro, ma la crescita è rimasta asfittica. Non ci resta che
l’espansione della spesa pubblica, che suscita timori per il debito
pubblico.
Tuttavia, in un paese che gode di sovranità monetaria,
il vincolo vero alla crescita della spesa pubblica non è il debito
pubblico (semmai sono le politiche di austerità che fanno crescere il
debito in rapporto al Pil), bensì il vincolo esterno cioè l’eccesso di
importazioni rispetto alle esportazioni che si può verificare con una
crescita della domanda e della produzione interna. Per fronteggiare
questo vincolo, l’Italia dovrebbe affidarsi ad un mix di strumenti in
grado di sostenere la spesa pubblica (per altro indispensabile se non
vogliamo distruggere scuola, ricerca, sanità, infrastrutture) con una
politica monetaria accomodante, una svalutazione della moneta rispetto a
quei paesi europei verso i quali c’è stato un apprezzamento del tasso
di cambio reale (la svalutazione non fa miracoli, ma contribuisce a
tenere a bada i conti esteri in un paese manifatturiero) e con politiche
industriali orientate ad attenuare il vincolo esterno.
L’abbandono
della moneta unica potrebbe riconsegnare ai governi nazionali, soggetti
al giudizio degli elettori, l’insieme degli strumenti di politica
macroeconomica utilizzabili per far crescere l’occupazione e che sono
oggi largamente preclusi dall’assetto istituzionale e dalle politiche
dell’unione monetaria europea.
È per questo che la fine della
moneta unica è un evento che non può essere escluso, e la gestione di un
tale difficile passaggio richiederebbe una classe dirigente attrezzata e
una Banca Centrale leale al governo del paese – un vincolo politico sul
quale è legittimo interrogarsi.
Vorremmo però ricordare le parole
di Keynes. Quando, nel 1925, il governo inglese tornò ad ancorare la
sterlina all’oro, Keynes denunciò il gold standard come «l’idolo di
quelli che siedono nella cabina di comando», un Moloch finanziario che
chiese prima il sacrificio delle condizioni di vita dei minatori e poi
il sacrificio del posto di lavoro degli insegnanti. Quando nel 1931 la
situazione divenne insostenibile e la sterlina abbandonò il sistema,
Keynes commentò che «pochi sono gli inglesi che non si rallegrino della
rottura del nostro legame al gold standard» e aggiunse: «Potrà
sorprendere che una decisione del genere, presentata come un disastro
catastrofico, sia stata accolta con tanto entusiasmo».