il manifesto 18.10.16
L’atto di accusa del colonialismo europeo di una «provocatrice»
Pamphlet. «Les blanches, les Juifs et nous» di Houria Bouteldja
di Carla Panico
Il
fascino indiscreto della provocazione de Les Blancs, les juifs et nous
di Houria Bouteldja. Di lei dicono che è «razzista, omofoba, antisemita,
antifemminista». Ma soprattutto, Houria Bouteldja «è una provocatrice».
È una provocatrice per aver scritto un libro che solletica e ferisce
nelle sue profondità più intime la coscienza sporca della République, la
nazione che ha dato i natali all’intero progetto egemonico della
modernità occidentale, a partire dalla Rivoluzione Francese. È una
provocatrice perché pecca di lesa maestà, e a quel 1789 fa rispondere
l’eco «decoloniale» di un’altra data, 1492. La scoperta non di un
continente, ma di un’alterità, o meglio di un altro, immediato oggetto
di dominio, sfruttamento, sterminio.
È una provocatrice come lo
era, cinquant’anni fa, Franz Fanon, che nel 1961 pubblicava un libro che
Sartre consigliava ai bianchi di leggere per vergognarsi, «perché la
vergogna, insegna Marx, è un sentimento rivoluzionario».
È UNA
PROVOCATRICE perchè ci ricorda che la strada alla decolonizzazione è
lastricata di buone intenzioni, e c’è un mattone sconnesso su cui la
sinistra francese – ma in questo caso l’estensione transnazionale è
d’obbligo – continua a scivolare, e si chiama Palestina. È una
provocatrice perché traccia una genealogia della Shoah che affonda le
radici nell’esperienza coloniale, nell’archivio di pratiche di
detenzione e sterminio inventate contro i neri e che il nazismo ha
riportato all’interno dell’Europa. Perché ci ricorda che se non si
storicizza l’orrore, lo si trasforma in una fede da celebrare nelle sue
vuote ritualità.
È una provocatrice come è una provocazione un
manifesto, di cui è stata coautrice nel 2012, che titola: Nous sommes
les indigènes de la République. Siamo gli indigeni della Repubblica,
figli dei dannati della terra, esito dello sterminio sanguinario e
sistematico portato avanti in Algeria da chi si fregia di aver inventato
una modernità fondata sui diritti umani. È una provocatrice perché ci
ricorda che anche il Daesh non è altro che un frutto impuro di questa
storia violenta. È una provocatrice perché agita i sonni dei
progressisti, ricordando che il cuore di molte delle battaglie della
sinistra riposa sull’indiscutibile condizione della «bianchezza», non
come peccato originale ma come rapporto sociale specifico che associa
l’essere bianchi al privilegio.
È una provocatrice perché non ci
fa sfuggire dal razzismo insito nelle nostre società postcoloniali, e
non solo quando assume la forma dell’estrema destra che afferma
l’esistenza di razze biologiche e culturali. Anche quando assume quella
della sinistra che ne nega l’esistenza, rafforzando, di fatto, il
perdurare di un sistema razzializzato di ineguaglianza.
È UNA
PROVOCATRICE perché è una donna che non si dice femminista. E ci parla
del femminismo come dispositivo normativo agito storicamente sui corpi
delle donne nere dipinte come vittime, al fine di poter sottomettere
uomini neri dipinti come carnefici. È una provocatrice perché ci spiega
che quando serve solo a migliorare le condizioni di donne ricche dentro
stati-nazione bianchi ed omogenei si chiama femo-nazionalismo. È una
provocatrice perché insiste fragorosamente nelle contraddizioni di
un’epoca in cui potrebbe venire presto eletto il primo presidente
femonazionalista della storia degli Usa e lo sterminio quotidiano dei
non-bianchi nelle metropoli americane non verrà rallentato.
È una
provocatrice perché ricorda, con Gramsci, che il nostro vecchio mondo
sta crollando e che in questo chiaroscuro abbiamo ancora una scelta tra i
mostri che sorgono e una politica nuova, una politica dell’amore
rivoluzionario. Una politica del noi che compia la provocazione suprema:
provincializzare l’Io cartesiano, su cui si fonda il progetto
eurocentrico della modernità. È una provocatrice perché ci sfida a
costruire un noi decoloniale, che non si basi sulla semplice solidarietà
ma sul riconoscimento: quello del moltiplicarsi violento delle
frontiere che il capitalismo impone al mondo. Un certo essenzialismo
strategico impedisce al libro di Houria Bouteldja di compiere l’ultimo,
fondamentale, passaggio verso questo noi davvero inclusivo. Ma, del
resto, non è questo il suo compito. È il nostro.