il manifesto 18.10.16
Economia sommersa contro povertà pubblica
di Alberto Burgio
La
legge di stabilità 2017 non nasce proprio sotto una buona stella. Il
governo l’aveva appena consegnata alle agenzie quando la Caritas ha
mostrato la fotografia aggiornata e impietosa delle condizioni del
paese: i giovani sempre più poveri e, al sud, gli italiani che ormai
doppiano i migranti nella platea di quanti si ritrovano a bussare ai
Centri di ascolto. Ma non è questo l’unico dato che aiuta a cogliere il
senso della manovra finanziaria. Ce n’è un altro diffuso dall’Istat in
questi giorni forse ancora più interessante.
L’impianto della
finanziaria è ormai chiaro (anche se le coperture restano in gran parte
misteriose). Il governo cerca 27 miliardi per darne alle imprese oltre
15 (20 in otto anni).
Siccome la flessibilità in sede europea non
vale più di 5 miliardi, per il saldo ricorrerà al solito mix fatto di:
tagli alla spesa (3,3 miliardi, anche a danno del Fondo sanitario);
pochissimi soldi (meno di 4 miliardi in totale) per i contratti dei
pubblici e le pensioni, la scuola e l’università (ovviamente resta il
giro di vite sull’Ape agevolato); recupero (in minima misura)
dell’evasione fiscale e dei capitali illegalmente esportati (circa 12
miliardi); altri 4 miliardi dovrebbero infine scaturire dall’abolizione
di Equitalia. Per il momento non ci sarà l’aumento dell’Iva (altrimenti
la sconfitta del Sì al referendum sarebbe assicurata), ma il governo lo
ha già messo a bilancio (per oltre 30 miliardi) nel biennio 2018-19.
Non
c’è niente di nuovo, come si vede, e anche la giustificazione è la
solita: non si poteva fare di più perché mancano le risorse. Il ministro
del lavoro l’ha detto testualmente (a proposito dell’Ape, ma la tesi
vale per l’intera partita): «Serviva per forza trovare un equilibrio».
Bene.
È capitato però che nelle stesse ore in cui il governo rendeva nota la
legge di bilancio, l’Istat diffondeva i dati relativi alla (scandalosa)
composizione del Pil nel 2014. Da questi (che sono i dati più recenti in
materia) risulta che in quell’anno l’economia sommersa valeva circa il
13% del Pil nazionale: 211 miliardi (7,5 in più rispetto al 2011, e il
dato è in costante crescita). Di questa enorme quantità di denaro esente
da tassazione, 100 miliardi sono venuti dall’evasione fiscale (quindi
dieci volte quanto il governo si propone ora di recuperare, salvo al
tempo stesso cancellare le sanzioni per chi non ha pagato le tasse o le
ha pagate in ritardo); altri 75 dall’impiego di lavoro irregolare
(favorito proprio dai voucher cari al ministro Poletti), che in Italia
coinvolge oltre tre milioni e mezzo di lavoratori, soprattutto
nell’edilizia.
Neanche questa ovviamente è una novità. Un fatto
vergognoso sì, ma non inedito. Ad ogni modo, quel che più interessa (e
indigna) è che i due insiemi di dati – i conti della finanziaria e
quelli del sommerso – siano trattati (anche dalla maggior parte dei
media) come se i vasi non comunicassero tra loro e concernessero pianeti
diversi. Eppure è sin troppo evidente che la scarsità di risorse
disponibili ha molto a che fare con la massa di denaro (circa 90
miliardi) sottratta ogni anno al fisco. Ed è chiaro che in presenza di
una massiccia economia sommersa la cronica indigenza della finanza
pubblica genera gravi effetti distorsivi, poiché premia l’illegalità e
la corruzione mentre induce il governo a varare manovre inique e
recessive (salvo straparlare di «crescita») e ad accanirsi su quanti
tengono comportamenti virtuosi.
Il saldo complessivo dei dati dice
di una perversa redistribuzione del reddito a beneficio di chi commette
reati gravi (e il più delle volte dispone già di ingenti ricchezze).
Ma, benché chiara ed evidente, la connessione tra l’economia sommersa e
lo stato della finanza pubblica è tuttavia tabù. Questo si capisce per i
mercati, che godono in presenza di paradisi fiscali; forse per la Ue,
che privilegia la redditività dei capitali privati; e anche per la
stampa borghese, che non vuole dispiacere a vasti settori della propria
clientela. Ma come la mettiamo con un governo che si ostina a definirsi
di centrosinistra? E con un partito di maggioranza relativa guidato dal
premier, che si protesta di sinistra, salvo convivere senza problemi con
crescenti disuguaglianze e con la continua vessazione dei lavoratori
dipendenti e dei contribuenti onesti?
Oggi parlare di destra e di
sinistra serve solo a farsi dare degli ideologi o degli arcaici, eppure
che cosa più dell’equità dovrebbe stare a cuore a una sinistra moderna,
moderata, perbene? Chiedere che un governo riduca a dimensioni
accettabili il fenomeno dell’evasione fiscale e contributiva non
significa evocare campagne rivoluzionarie, ma solo pretendere che lo
Stato rispetti condizioni minime di legalità. Questo evidentemente in
Italia è impossibile e ci piacerebbe finalmente scoprirne il motivo.
Sarebbe davvero meraviglioso che il ministro Padoan spiegasse in
particolare perché proprio non gli riesce di far pagare a tutti tasse,
imposte e contributi come avviene nei principali paesi della Ue e
persino negli Stati uniti. Promettiamo che, se sarà così cortese da
risponderci, gli riserveremo ampio spazio in prima pagina.