il manifesto 18.10.16
I soldatini italiani in regalo ad Obama
di Tommaso Di Francesco
Tra
i tanti regali che Matteo Renzi porterà oggi alla scintillante serata
con Barack Obama primeggiano le ultime scelte militari, alla
spicciolata, di Palazzo Chigi. A cominciare dall’ultima decisione di
inviare 140 soldati alla frontiera russa. «Volevamo invaderla» ha
scherzato l’acuto presidente del Consiglio per rispondere all’ira russa
che accusa Europa e Occidente di «atteggiamento distruttivo».
Il
fatto è che sono 140 militari italiani che vanno al seguito di quattro
battaglioni della Nato, in Lettonia, di fronte all’enclave di
Kaliningrad. La giustificazione del segretario dell’Alleanza atlantica
Jens Stoltenberg – nomina sunt res – è stata poco veritiera: «Lì Mosca
ha installato i suoi missili antimissili». È vero, ma lo ha fatto per
reazione all’allargamento a est della Nato, strategia incessante
perseguita dai comandi statunitensi con accodati i governi europei, che
ha provocato prima la deriva in Ucraina – con il capo della Cia John
Brennan in piazza nel 2013 a dirigere la rivolta – e dopo la decisione
atlantica di installare in Polonia e Romania il sistema di Scudo
antimissile.
Che volete che sia, perché l’arguto Renzi resta
convinto di potere comunque continuare nella strategia, già
democristiana e berlusconiana, di tenere due piedi in due staffe. Non
associandosi magari alla richiesta di sanzioni alla Russia che avanzano –
per il ruolo di Mosca in Siria – Gran Bretagna, Francia, Germania e gli
Stati uniti.
Ma sempre inviando nostri soldatini di piombo nello
scacchiere. Per i dividendi petroliferi di guerra e intanto continuando a
fare affari con l’economia russa. È proprio l’ultimissimo dei regali in
tuta mimetica, piedi a terra.
Perché poco prima, a settembre c’è
stata la decisione di inviare 300 altri militari italiani a Misurata,
nelle retrovie dell’assedio di Sirte (ancora non caduta). Con i quali il
governo italiano «ippocrita» ha formalmente schierato i soldati a
protezione di una missione sanitaria nella prima retrovia della guerra,
tantopiù che siamo tra i protettori di una parte libica, il nuovo
governo di Tripoli di Al Serraj.
Ma probabilmente la scelta più
importante è stato l’invio, a dicembre 2015, di 450 soldati italiani,
diventati poi 700, a protezione della diga di Mosul già conquistata
dall’Isis e poi liberata dalle milizie sciite. La decisione torna in
evidenza in queste ore, con l’inizio dell’offensiva anti-Isis, carica di
maggiori rischi e insieme più che utile come gentile cadeau nella festa
con Obama, dove qualche omaggio italiano prezioso va pure portato.
Aveva
detto Matteo Renzi: «Noi non rincorriamo le bombe degli altri», e
invece, proprio dopo la chiamata del presidente Usa, aveva annunciato da
Porta a Porta l’invio a Mosul, l’area più calda dell’Iraq, delle truppe
italiane. Una svolta del fino ad allora «disertore» Renzi, passata
quasi sotto silenzio. Perché si trattava di «stivali a terra», truppe
sul campo, quelle che l’America non mette più in questa quantità, tanto
che dà l’appalto dei presidi di guerra proprio all’Italia e ad altri
Paesi atlantici, tutti accodati sulla scia delle guerre aeree, dall’alto
dei cieli, dei droni e dei jet americani. Dopo le gravi responsabilità
degli Amici della Siria (Stati uniti, Paesi Europei, Turchia e
petromonarchie del Golfo) che per più di due ani hanno destabilizzato la
Siria «perché Assad se ne doveva andare», favorendo indirettamente e
direttamente la nascita dello Stato islamico.
Senza dimenticare
che siamo andati in armi a Mosul per difendere l’importante struttura
della mega-diga. Un presidio militare per una ditta di Cesena, il Gruppo
Trevi, che doveva prendere una committenza per sistemare la diga.
Finalmente una chiarezza sull’«umanitario»: in armi per il made in Italy
e contro la concorrenza tedesca che mirava all’appalto. La diga era
diventata famosa nel 2014 per lo sventolìo di bandiere dell’Isis che
annunciava la sua estensione dalla Siria alla provincia irachena di
Anbar con la conquista di Mosul. Da dove infatti il «califfo» Al
Baghdadi fece il suo proclama al mondo.
Una zona dunque rischiosa
che, nonostante sia accerchiata dalla controffensiva partita ieri – ma
da eserciti (quello turco) e milizie sciite, kurdo-irachene, con i
governativi e le forze speciali Usa che rischiano di farsi la guerra fra
loro – resta ancora nelle mani dell’Isis. L’Italia ha inviato centinaia
di soldati a presidiare una zona così esplosiva che, a paragone, quella
di Nassiriya sembrerà una passeggiata.
Il Presidente del
Consiglio aveva detto «senza una strategia non c’è intervento militare»,
e invece almeno in Lettonia e prima in Libia e in Iraq, siamo corsi al
seguito della strategia Usa. In Iraq, da dove ci siamo ritirati da anni.
Mentre da Mosul già comincia la nuova fuga. L’Onu prevede che
fuggiranno ancora centinaia di migliaia di persone dopo quelle del
giugno 2014. Quanto a «hotspot «sicuri» per recintare la disperazione
dei profughi, state tranquilli: il Sultano Erdogan propone una «safe
zone» già nella Siria da lui «liberata», da poter utilizzare
all’occasione come «zona cuscinetto» per occupare il territorio siriano e
combattere i kurdi. Senza dimenticare la continuazione anche nostra
della guerra in Afghanistan che dura da più tempo di quella del Vietnam.
Un altro sbattimento di tacchi, un altro signorsì di Matteo Renzi.