martedì 18 ottobre 2016

Corriere 18.10.16
La riconquista della «Capitale» del Califfato
Mosul: battaglia finale contro Isis. Gli elicotteri italiani in prima linea
Circa 7 mila jihadisti nella città irachena assediata da una forza di 30mila uomini
di Davide Frattini e Fiorenza Sarzanini

GERUSALEMME Mettete il nastro isolante a «X» sulle finestre, state ai piani bassi dei palazzi, tenete i bambini in casa. I volantini lasciati cadere su Mosul suggeriscono ai civili come resistere all’assedio che potrebbe durare settimane. Non ce n’era bisogno: da giorni la gente nella città irachena accumula quel che è possibile, cibo e medicine, si trincera come i miliziani dello Stato Islamico che da due anni spadroneggiano tra queste strade. La battaglia per Mosul è cominciata domenica notte con i peshmerga curdi che avanzano sui blindati sotto la luce della luna e il premier iracheno Haider Abadi che incita alla «vittoria storica» sotto i riflettori della diretta televisiva.
E in prima linea ci sono anche i soldati italiani. Le regole di ingaggio sono chiare: si può rispondere soltanto se attaccati. Ma l’impiego dei militari a Erbil - che si trova a 80 chilometri dal teatro di guerra - prevede il soccorso ai feriti della coalizione con quattro elicotteri militari da trasporto Nh-90 dell’Esercito scortati dagli elicotteri da attacco A-129 Mangusta armati di missili e cannoncini rotanti.
È il Personnel Recovery , missione affidata a 130 incursori del 17° stormo dell’Aeronautica, le forze speciali da combattimento. Ed è questo a rendere strategico il ruolo del nostro contingente. Ma anche a far elevare il livello della minaccia contro la Brigata Aosta impegnata nel presidio della diga di Mosul e soprattutto di tutte le sedi della ditta Trevi alla quale è affidata la messa in sicurezza dell’impianto.
Adesso gli uomini in nero — sarebbero rimasti in 7 mila — si muovono solo in moto, il passeggero seduto dietro a scrutare il cielo con il binocolo per individuare i droni americani, le barbe tagliate per non essere individuati. «La nostra bandiera verrà presto innalzata nel centro della città e in ogni angolo dei villaggi liberati», proclama il premier Abadi. Per ora a sventolare è solo il vessillo tricolore della regione semi-autonoma del Kurdistan: i quattromila militari sono impegnati nella prima parte dell’operazione e — proclama il loro presidente Massud Barzani — «hanno già tolto 200 chilometri quadrati di territorio al Califfato».
Nei piani degli strateghi americani che sostengono l’assalto anche con le forze speciali e i bombardamenti, le truppe curde devono essere affiancate dai soldati iracheni e dagli uomini delle tribù locali sunnite: 30 mila armati in totale per riconquistare la città perduta nel giugno del 2014, quando mille terroristi hanno messo in fuga quasi 60 mila tra poliziotti e militari iracheni e da dove Abu Bakr al Baghdadi si è autoproclamato Califfo.
Il primo ministro Abadi promette che a Mosul entrerà solo l’esercito per evitare scontri tra la popolazione e le milizie sciite sostenute dall’Iran che partecipano all’offensiva. Abadi sa che il milione e mezzo di abitanti all’inizio aveva accolto gli estremisti dello Stato Islamico come liberatori da quelli che considerano i soprusi del governo centrale a Bagdad controllato dagli sciiti. Per scoprire quasi subito gli orrori del dominio fondamentalista: le esecuzioni per strada, le regole di vita oltranziste imposte con la tortura. Adesso sui muri della città disegnano la M, sta per Muqawama (resistenza), il simbolo della ribellione al Califfato.
Già da giorni per i nostri contingenti in Iraq è scattato lo stato di massima allerta. Sono state rinforzate le postazioni di sicurezza e i “ripari”. Il pericolo per i bersaglieri potrebbe arrivare da un’offensiva dei fondamentalisti decisi a rispondere all’attacco sferrato a Mosul colpendo i bersagli più fragili rispetto a quelli schierati in città. E dunque puntare proprio verso la diga che si trova a circa 25 chilometri di distanza.
Il timore è che utilizzino razzi per dimostrare di essere in grado di reagire e soprattutto di colpire un prezioso alleato occidentale. Anche perché è vero che la missione di chi è sulla diga non prevede interventi diretti, ma consente di schierarsi al fianco degli iracheni e dei peshmerga «in caso di necessità». Gli equipaggiamenti, e soprattutto gli armamenti, sono “leggeri” ma ormai la battaglia è cominciata, impossibile stabilire se sarà necessario prevedere un rinforzo.
Le Nazioni Unite avvertono che i civili potrebbero essere usati come scudi umani, che un milione di persone rischia di restare senza casa. Si teme un esodo di massa come dalle città siriane sottoposte ai bombardamenti russi e del regime di Bashar Assad, che ieri sono stati condannati dall’Unione Europea: «I raid su Aleppo vanno fermati, possono costituire crimini di guerra». Per ora Mosca promette solo una pausa umanitaria di otto ore per giovedì.