il manifesto 16.10.16
Povertà, l’Italia ha rinunciato a combatterla
Stato
sociale. Nella giornata mondiale per l’eliminazione della miseria, gli
ultimi dati registrano nel Paese una situazione in netto peggioramento.
Dopo 8 anni di tagli al welfare, un ddl che stanzia poco più di 1 mld
invece dei 18 necessari
di Giuseppe De Marzo
Domani,
17 ottobre, è la giornata mondiale per l’eliminazione della povertà,
istituita nel 1993 dalle Nazioni Unite. Povertà e disuguaglianze sono
oggi i principali problemi del nostro Paese e del nostro continente. Ma
quel che è ancor più grave, è che ogni anno per noi italiani è sempre
peggio. Gli ultimi dati Istat, Eurostat, Svimez, Censis denunciano una
vera e propria emergenza sociale e democratica. «Un sistema di
protezione sociale tra quelli europei meno efficace ed incapace di far
fronte all’aumento di diseguaglianze e povertà», queste le parole
pronunciate lo scorso 20 maggio alla Camera dal presidente dell’Istat,
Giovanni Alleva, durante la presentazione dell’ultimo rapporto 2016
sulla situazione del Paese.
Disuguaglianze e povertà aumentano,
nonostante la crescita economica. I dati sono drammatici ed al tempo
stesso inequivocabili: l’indice Gini sulle diseguaglianze di reddito è
aumentato da 0,40 a 0,51, dal 1990 al 2011, portando il nostro Paese ad
essere quello con l’incremento peggiore d’Europa dopo la Gran Bretagna,
in cui si registra un indice dello 0,52; il 28,3% della popolazione è a
rischio povertà, in particolar modo al sud; altissimo il numero della
povertà assoluta, che colpisce quasi 5 milioni di italiani, triplicati
negli ultimi 8 anni, così come il numero dei miliardari, arrivati a 342,
a dimostrazione che la ricchezza c’è ma il sistema la ridistribuisce
verso l’alto. Resta immutato all’11,5% l’indice di grave deprivazione
materiale che colpisce le famiglie. L’Istat denuncia come il sistema di
trasferimenti italiano (escludendo le pensioni) non sia in grado di
contrastare la dinamica di costante impoverimento, che colpisce
soprattutto donne, minori, famiglie monoparentali, migranti già
residenti. Il progressivo deterioramento delle condizioni del mercato
del lavoro ha contribuito in maniera determinante all’aumento
vertiginoso delle diseguaglianze, colpendo soprattutto giovani e donne.
Instabilità lavorativa e precarietà sono tra i principali fattori che generano i maggiori svantaggi distributivi.
Questo
spiega la crescita dei Neet, gli under 30 che non sono occupati, non
studiano ed hanno smesso di cercare lavoro. Nel 2015 erano oltre 2,3
milioni, in grande aumento rispetto al 2008 ma in leggero calo rispetto
al 2014 (-2,7%). A conferma di una situazione che vede i giovani del
nostro Paese tra i più discriminati del continente, i dati del rapporto
Istat sulla mobilità sociale e sugli effetti occupazionali del percorso
di studi testimoniano un sistema sociale bloccato e/o altamente
selettivo, nel quale l’accesso ad un buon lavoro è possibile solo per
chi ha condizioni di partenza migliori.
Il nostro sistema di
protezione sociale è sottofinanziato ed inadeguato. L’Istat fa l’esempio
di altri Paesi europei che nonostante le politiche di austerità imposte
dalla governance hanno garantito e finanziato sistemi di welfare in
grado di evitare o contenere l’aumento della povertà. Il rapporto
dimostra che si poteva e doveva fare decisamente molto di più per
evitare il disastro sociale. Il problema non è certo di assenza di
risorse, ma di priorità scelte dalla politica. Dal rapporto emerge
infatti come nel 2014 il tasso delle persone a rischio di povertà si
riduceva, dopo i trasferimenti, di 5,3 punti (dal 24,7 al 19,4%) a
fronte di una riduzione media nell’Ue a 27 Paesi di 8,9 punti. Le
disparità all’interno dell’Unione sono notevoli. L’Irlanda è il Paese
europeo con il sistema di trasferimenti sociali più efficace, in grado
di ridurre l’indicatore di rischio di povertà di 21,6 punti; segue la
Danimarca (14,8 punti di riduzione). Soltanto in Grecia (dove il valore
dell’indicatore si riduce di 3,9 punti) il sistema di trasferimenti
sociali è meno efficace di quello italiano.
Questo stato di cose
spiega perché anche in presenza di una crescita del Pil non vi sia un
miglioramento delle condizioni di vita per chi è in difficoltà, anzi il
divario come abbiamo visto aumenta. Così come è stato ampiamente
dimostrato che non vi è nessuna relazione tra aumento del debito
pubblico e spesa pubblica. La nostra spesa sociale è tra le più basse
d’Europa e, nonostante i tagli, il debito continua a crescere. La
fotografia scattata dall’Istat è la conseguenza di una politica assente
da anni nella lotta alle diseguaglianze, rassegnata all’idea che non sia
obbligo della Repubblica combatterle e rimuoverne le cause, sempre più
preoccupata a convincerci che il welfare rappresenti ormai un lusso che
non possiamo più permetterci. Universalismo selettivo, darwinismo
sociale e istituzionalizzazione della povertà sono conseguenze di una
cultura politica che rinnega universalismo, solidarietà e cooperazione
sociale come strumenti fondanti della democrazia a garanzia della
Dignità.
L’impianto normativo adottato e le scelte fatte nel corso
di questi ultimi otto anni di crisi lo confermano: taglio del 66% del
Fondo Nazionale per le politiche sociali, mancati trasferimenti ai
Comuni per 19 miliardi a causa del patto di stabilità (dati Ifel),
assenza di una misura di sostegno al reddito, già attiva in tutta Europa
con la sola esclusione di Grecia e Italia, invocata da numerose
risoluzioni europee a partire dal 1992 e dalle mobilitazioni e proposte
di centinaia di migliaia di cittadini impegnati per introdurre un
reddito di Dignità. Per ultimo il Ddl povertà, che stanzia la miseria di
poco più di un miliardo di euro per affrontare un’emergenza che ne
richiederebbe 18 per garantire almeno la dignità.
* Campagna Miseria Ladra, Libera-Gruppo Abele