mercoledì 12 ottobre 2016

il manifesto 12.10.11
Sánchez non è Corbyn
Spagna. L'ex segretario ha impegnato il Psoe più nell’evitare il sorpasso di Podemos che nell’aprire la prospettiva di un governo progressista. Ora il partito è nelle mani dei "generali" che battezzeranno il nuovo governo
di Loris Caruso

Il 24 e il 25 ottobre si svolgeranno in Spagna le nuove consultazioni del re per la formazione del governo. È a questo punto altamente probabile che nascerà il nuovo governo di Rajoy, grazie al sostegno determinante del partito socialista. Per arrivare a questo obiettivo, il Psoe e tutti i poteri che sostengono la nascita di una grande coalizione (esplicita o implicita), hanno dovuto esautorare Pedro Sánchez, segretario del partito fino a 10 giorni fa.
Nel Partito socialista spagnolo si è svolta nelle scorse settimane una guerra civile e l’hanno vinta gli insorti. Gli insorti sono i generali, cioè i capi del partito nelle grandi regioni del paese e le figure storiche più legate ai centri di potere economico e mediatico, favorevoli alla nascita di un nuovo governo del Partito popolare.
Il conflitto andato in scena è apparentemente molto chiaro. Da un lato il segretario, sostenuto dalla base, che difendeva una netta opposizione al Pp, dall’altro i segretari regionali, disponibili a far nascere il governo della destra. Il conflitto sembra quindi quello della base (Sánchez) contro l’apparato e quello della sinistra contro la destra interna.
Ma la realtà è molto meno chiara. Sánchez non è Corbyn. Non rappresenta la sinistra interna e non ha mai preso posizione per la nascita di un governo di sinistra. Proponeva una specie di governo di sinistra-centro-destra con Podemos (che però non doveva avere ministri) e Ciudadanos. Ma lo proponeva sapendo che era impossibile, per prendere tempo. Sánchez, più che a Corbyn, somiglia a Pierluigi Bersani: vaghezza degli obiettivi, timidezza della retorica, timore dei poteri economici.
Sánchez e i suoi oppositori condividevano l’obiettivo fondamentale del Psoe: sconfiggere Podemos, farlo retrocedere, impedire in ogni modo il suo accesso al governo.
Tutto ciò che il Psoe ha fatto in questi due anni è stato pensato in questa chiave. Sánchez ha impegnato il Psoe più nell’evitare il sorpasso di Podemos che nell’aprire la prospettiva di un governo progressista. Adesso sperava che il suo No a Rajoy portasse a nuove elezioni in cui consolidare il vantaggio su Up (la coalizione tra Podemos e Izquierda Unida). Le due bande del Psoe sono quindi entrate in conflitto non sull’obiettivo, ma sulla strada più efficace per raggiungerlo.
Per Podemos, dall’inizio, la distruzione della forza elettorale del Psoe è un obiettivo di primaria importanza. La sua azione e la pressione che ha esercitato insistendo sulla proposta di formare un governo Psoe-Podemos, hanno portato a una crisi dei socialisti che sembra avere aspetti quasi definitivi. Podemos e Up hanno così a portata di mano un obiettivo strategico: la «pasokizzazione» del Psoe, la sua riduzione a figura minore dello spettro politico.
Il fatto strutturale alla base della crisi socialista è quindi la nascita di Podemos. Ciò è quasi paradossale, perché fino a una settimana fa a tenere la scena erano i conflitti interni a Podemos, personificati dal dualismo tra Pablo Iglesias e Inigo Errejon (il suo “numero 2”) e basati sulle dicotomie classiche dei partiti di sinistra e dei partiti outsider: essere di protesta o di governo (o in che modo essere entrambi), movimentisti o istituzionali, aggressivi o rassicuranti, conflittuali o seducenti, di sinistra o trasver