il manifesto 12.10.11
Sánchez non è Corbyn
Spagna. L'ex
segretario ha impegnato il Psoe più nell’evitare il sorpasso di Podemos
che nell’aprire la prospettiva di un governo progressista. Ora il
partito è nelle mani dei "generali" che battezzeranno il nuovo governo
di Loris Caruso
Il
24 e il 25 ottobre si svolgeranno in Spagna le nuove consultazioni del
re per la formazione del governo. È a questo punto altamente probabile
che nascerà il nuovo governo di Rajoy, grazie al sostegno determinante
del partito socialista. Per arrivare a questo obiettivo, il Psoe e tutti
i poteri che sostengono la nascita di una grande coalizione (esplicita o
implicita), hanno dovuto esautorare Pedro Sánchez, segretario del
partito fino a 10 giorni fa.
Nel Partito socialista spagnolo si è
svolta nelle scorse settimane una guerra civile e l’hanno vinta gli
insorti. Gli insorti sono i generali, cioè i capi del partito nelle
grandi regioni del paese e le figure storiche più legate ai centri di
potere economico e mediatico, favorevoli alla nascita di un nuovo
governo del Partito popolare.
Il conflitto andato in scena è
apparentemente molto chiaro. Da un lato il segretario, sostenuto dalla
base, che difendeva una netta opposizione al Pp, dall’altro i segretari
regionali, disponibili a far nascere il governo della destra. Il
conflitto sembra quindi quello della base (Sánchez) contro l’apparato e
quello della sinistra contro la destra interna.
Ma la realtà è
molto meno chiara. Sánchez non è Corbyn. Non rappresenta la sinistra
interna e non ha mai preso posizione per la nascita di un governo di
sinistra. Proponeva una specie di governo di sinistra-centro-destra con
Podemos (che però non doveva avere ministri) e Ciudadanos. Ma lo
proponeva sapendo che era impossibile, per prendere tempo. Sánchez, più
che a Corbyn, somiglia a Pierluigi Bersani: vaghezza degli obiettivi,
timidezza della retorica, timore dei poteri economici.
Sánchez e i
suoi oppositori condividevano l’obiettivo fondamentale del Psoe:
sconfiggere Podemos, farlo retrocedere, impedire in ogni modo il suo
accesso al governo.
Tutto ciò che il Psoe ha fatto in questi due
anni è stato pensato in questa chiave. Sánchez ha impegnato il Psoe più
nell’evitare il sorpasso di Podemos che nell’aprire la prospettiva di un
governo progressista. Adesso sperava che il suo No a Rajoy portasse a
nuove elezioni in cui consolidare il vantaggio su Up (la coalizione tra
Podemos e Izquierda Unida). Le due bande del Psoe sono quindi entrate in
conflitto non sull’obiettivo, ma sulla strada più efficace per
raggiungerlo.
Per Podemos, dall’inizio, la distruzione della forza
elettorale del Psoe è un obiettivo di primaria importanza. La sua
azione e la pressione che ha esercitato insistendo sulla proposta di
formare un governo Psoe-Podemos, hanno portato a una crisi dei
socialisti che sembra avere aspetti quasi definitivi. Podemos e Up hanno
così a portata di mano un obiettivo strategico: la «pasokizzazione» del
Psoe, la sua riduzione a figura minore dello spettro politico.
Il
fatto strutturale alla base della crisi socialista è quindi la nascita
di Podemos. Ciò è quasi paradossale, perché fino a una settimana fa a
tenere la scena erano i conflitti interni a Podemos, personificati dal
dualismo tra Pablo Iglesias e Inigo Errejon (il suo “numero 2”) e basati
sulle dicotomie classiche dei partiti di sinistra e dei partiti
outsider: essere di protesta o di governo (o in che modo essere
entrambi), movimentisti o istituzionali, aggressivi o rassicuranti,
conflittuali o seducenti, di sinistra o trasver