Il Fatto 9.10.16
Roma, la caduta di Marino e il tafazzismo del Pd
di Antonio Padellaro
L’ASSOLUZIONE
DELL’EX sindaco di Roma, Ignazio Marino, ripropone in termini
esilaranti il tema della stupidità in politica. Fu giusto un anno fa,
infatti, che su ordine di Matteo Renzi, i consiglieri comunali piddini
decisero di sfiduciare Marino, con la grottesca sfilata nello studio di
un notaio. La cosa apparve subito per quello che era: una dimostrazione
di arroganza bullesca da parte del premier e di servilismo mortificante
dei suoi sottoposti in Campidoglio. Ma fu soprattutto un gigantesco
errore politico, per almeno tre motivi. Primo. Sicuramente l’immagine di
Marino non sarebbe rimasta scolpita nei bassorilievi della Città
Eterna, soprattutto per le numerose gaffes e una notevole inefficienza
nell’affrontare le costanti emergenze cittadine, dai trasporti alla
raccolta dei rifiuti. Tuttavia, proprio queste debolezze avevano fornito
a Renzi la possibilità di commissariare il sindaco, con l’arrivo in
giunta, su poltrone chiave, di assessori renziani come Stefano Esposito.
Palazzo Chigi avrebbe potuto, cioè, esercitare tranquillamente
un’influenza decisiva sulle decisioni strategiche del Comune anche
perché Marino non chiedeva altro che di restare al suo posto. Secondo. A
Renzi, lo sapevano pure i sampietrini, interessava sopra ogni cosa (e
forse unicamente) che la giunta Pd continuasse a sostenere la
candidatura olimpica di “Roma 2024”. Decisione già approvata dal
consiglio comunale e a cui Marino, mai nella vita, avrebbe potuto
frapporre il pur minimo ostacolo: passare alla storia come il sindaco
dei Giochi, il suo ego cosa poteva chiedere di più? Terzo. Ecco però
che con un’operazione a dir poco geniale, Renzi e i suoi, decidono di
cacciare su due piedi il primo cittadino, come nemmeno una colf, facendo
imbufalire le centinaia di migliaia di romani che lo avevano votato (si
chiama elezione diretta). Fu così che i Cinquestelle, in forte
crescita di consensi nell’Urbe dopo Mafia Capitale, già a ottobre
dell’anno scorso erano sicuri di avere il Campidoglio in tasca. Anche
perché, visti i disastri compiuti, nessuno avrebbe scommesso un
centesimo sull’elezione di un altro sindaco Pd (neppure, ne siamo
convinti, il pur bravo Roberto Giachetti). Fu così che Virginia Raggi
stravinse e le Olimpiadi a Roma, fulcro della sua cavalcata elettorale
attraverso il gigantesco No, strapersero. Adesso Matteo Orfini si
giustifica dicendo che il Pd chiese le dimissioni del povero Ignazio
“non per gli scontrini ma perché incapace”. Invece lui e il Matteo
fiorentino si sono dimostrati capaci, sì capacissimi di prendersi a
martellate sui piedi. Con leader di questo calibro il No al referendum
ha buone possibilità di farcela.