Corriere 14.10.16
Le quattro piaghe di Roma (ma non tutto è perduto)
di Giuseppe De Rita
Da
molte settimane siamo quotidianamente attratti dalle turbolenze del
governo di Roma capitale e dalle ineffabili vicende della sindaca, degli
assessori e degli strani circuiti che sottotraccia ne gestiscono le
decisioni. Avviene però in tale modo che un po’ tutti finiamo col
dimenticare che a vivere la crisi più grave è la città, non i deputati a
governarla.
Chiunque a Roma scambi quattro chiacchiere con un
turista, con un tassista, con un commerciante di medio lignaggio, o più
semplicemente si guardi intorno, avverte che la città è inerte e vuota:
non c’è effervescenza quotidiana, non ci si prepara a grandi eventi, non
c’è alcuna intenzionalità a perseguire futuri significativi traguardi.
Può dispiacere per chi, come me, qui c’è nato e vissuto a lungo, ma
questa è una città sfatta. E nessuno si applica a capire le radici
profonde di quel che è avvenuto e sta avvenendo.
La prima di
queste è che la esponenziale crescita del turismo si accompagna ad una
preoccupante mediocrità qualitativa sia della domanda che dell’offerta
dei relativi servizi. Basta girare per Roma per averne certezza: è una
città di pizzerie, tavolini per strada, folle di portapiatti,
alberghetti fioriti quasi d’incanto, bed and breakfast in ogni palazzo e
per ogni portone, turisti che trascinano i loro bagagli da una
sistemazione «alla meglio» ad un’altra «quale che sia». Questo turismo
sembra una grande fonte di ricchezza, specialmente per le categorie che
lo cavalcano; ma è nei fatti un fattore di degrado lento e progressivo
della vitalità collettiva, visto che lo gestiamo passivamente e con
qualche cinismo, senza nessuna sfida a fare nuova e più moderna
imprenditorialità, nuovi e più moderni canoni di offerta turistica.
L’esperienza ci dice che dopo pochi decenni di invasione turistica le
città perdono il proprio vigore; è avvenuto per Sorrento o Venezia o
Firenze, ma noi romani per ora non avvertiamo il pericolo (come invece
lo avverte la sindaca di Barcellona quando proclama «mai come Venezia»).
La
seconda piaga di Roma è la corsa al low cost. È vero che si tratta di
un fenomeno quasi universale, ma qui fa parte di un’antica attitudine
dei romani ad ottenere tutto e spendere poco (sfiorando la tentazione e
la goduria dello sbafo). Cerchiamo da sempre sconti, promozioni, offerte
speciali (code in via Condotti come nei centri commerciali di
periferia); ma sempre più cerchiamo low cost per ogni servizio (una
crociera, un viaggio, una tariffa di traffico sul cellulare, ecc.) in
una collettiva saga del prendere tutto e pagare poco. Se ci pensiamo
bene, la contropartita è in una decrescente capacità di discernimento e
nell’inerte contentarsi di quel che ci viene venduto meglio. Se si
guarda al volto delle persone che scorrono annunci vari sul proprio
telefonino si vedranno dei volti sempre più spenti, lontani dalle
espressioni ironiche ed «impunite» del romano tradizionale.
Antropologicamente «Roma non è più fra queste mura».
Questa
declinazione al basso è legata anche alla crisi di un mondo impiegatizio
modesto ma civile, che per decenni ha trovato identità e potere nel
fare intermediazione fra Stato e cittadini, gestendo congiuntamente il
primato dell’atto amministrativo e del relativo procedimento. Le
innovazioni recenti, specie quelle istituzionali e digitali, stanno
velocemente comprimendo tale funzione; così, centinaia di migliaia di
romani (di seconda e terza generazione) restano senza identità e potere.
Gli strumenti digitali, proprio quelli che li tagliano fuori, possono
essere usati per un personale autogestito intrattenimento, ma il loro
uso continuato li rende professionalmente precari e spesso emotivamente
rancorosi; maturi forse per diventare elettori grillini, ma certo
incapaci del vigore collettivo per uscire dalla palude in cui sono
confinati.
Se l’esplosione turistica, la propensione al low cost,
il disfacimento del ceto impiegatizio sono fenomeni abbastanza recenti,
c’è un quarto fattore della crisi romana che invece è di lunga durata:
la quota stabile di quella cinica moltitudine urbana («lazzari» li
chiamava Croce) che vive nelle tante pieghe di margine della vita
cittadina. Inutile negare che mercanti e tassisti abusivi, finti
gladiatori e produttori di false anticaglie, parcheggiatori e secondi
lavoristi e tante altre infinite figure sociali ci sono sempre state,
nella storia romana, quasi in un tradizionale ricasco di una ristretta
società borghese. Ma il fenomeno oggi (in una città ormai di
«moltitudine») non è più laterale ma strutturale, quindi non facilmente
gestibile e superabile.
Quattro le piaghe della città che ho
cercato di mettere in fila. Ad esse, per sequela ad Antonio Rosmini,
autore de Le cinque piaghe della Chiesa , verrebbe voglia di aggiungerne
un’altra, eleggendo a tale onore il «governo della città». Ma indulgere
all’ironia sarebbe in questo momento forse «commedia a braccio». Per
esser seri, possiamo e dobbiamo un po’ tutti pensare invece a una
mobilitazione collettiva, che non può certo basarsi sull’ordinaria
gestione dell’esistente; ma può e deve invece fare leva nello
sfruttamento dei due o tre eventi importanti che planeranno su Roma da
qui al Giubileo 2025. Liberi, sperabilmente, dalla infeconda damnatio
olimpica andata in scena nelle ultime settimane.