domenica 9 ottobre 2016

Corriere La Lettura 9.10.16
I Medici
Il genio ambiguo di Cosimo, mezzo alchimista un po’ scacchista
di Marcello Simoni

L’uomo sarà pure un animale politico, ma non si può certo negare che in determinati momenti della storia egli si sia servito della politica come un’arma. Malgrado una simile affermazione possa stridere con i temi del Rinascimento, specie se si parla di Firenze agli albori dell’epoca che portò le arti e la cultura alla loro massima espressione, è proprio in quel frangente che l’inclinazione all’inganno caratterizzò con maggior enfasi oligarchie e grandi casate. Offrendo lo scenario perfetto per un romanzo storico. Anzi per una trilogia, che Matteo Strukul inaugura con l’appassionante I Medici. Una dinastia al potere (Newton Compton). Al di là della fiction, sono molte le suggestioni derivate dal denso succedersi di eventi che accompagnano l’incubazione e l’ascesa della cosiddetta «criptosignoria» di Cosimo il Vecchio, accorto esponente di una famiglia di banchieri, mercanti e committenti che determinarono la fortuna di Firenze dopo il crollo delle compagnie bancarie trecentesche dei Bardi, dei Peruzzi e degli Acciaiuoli.
Intrecciandosi con le leggende, il suo albero genealogico accenna a origini misteriose, legate ad antichi guaritori o addirittura ad ammazzagiganti avvolti nelle nebbie dell’età carolingia. Le fonti del Quattrocento sono tuttavia più generose, offrendoci una marea di lettere, documenti e testimonianze che descrivono un’epoca luminosa e sanguinaria, contrassegnata da guerre, biblioteche, espansioni territoriali e una vocazione per gli affari che in più di un’occasione determinarono i rapporti tra il potere e la ragion di Stato. Gli intrighi e le congiure cui dovette far fronte Giovanni di Bicci, padre di Cosimo e Lorenzo, arrivano pertanto, nell’arco di un trentennio, a decuplicarsi. La guerra contro Lucca, l’ostilità di Milano e la presenza di nemici «interni», primi fra tutti gli Albizzi, si alternano, in un gioco di chiaroscuri, all’edificazione di Santa Maria del Fiore e al Concilio ecumenico del 1439, preceduto dall’esilio veneziano di un Cosimo che impara ad affilare le armi nel silenzio, con stoica moderazione.
Ebbene, non è difficile figurarsi, in un simile contesto, una trama di avvelenamenti, duelli di spada e notti inquiete, mentre sagome di sicari nerovestiti o di Milady de Winter ante litteram si stagliano minacciose fra le ombre del Ponte Vecchio e della via Larga. Resta però da chiedersi, al di là di ogni suggestione storica, se Cosimo il Vecchio, deus ex machina dell’ascesa dei Medici, raggiunse il potere per assecondare un istinto predatorio o di autodifesa. Se, in sostanza, egli ricoprì il ruolo del «buono» o del «cattivo» nell’affascinante romanzo che fu la sua vita.
Nel caso volessimo soffermarci sul suo rientro dall’esilio, il 5 ottobre 1434, non dovremmo infatti lasciarci fuorviare dall’apparente clemenza con cui egli punì i propri oppositori, limitandosi a metterli per buona parte al bando. Più che un’inclinazione al perdono, dal suo comportamento emerge una natura di scacchista maggiormente interessato a giocare di strategia che a consumare la vendetta. Come del resto trapela dalla duplice mossa con cui, servendosi del catasto, egli seppe ingraziarsi il popolo fiorentino e ridimensionare il potere delle ricche famiglie gelose della sua crescente autorità. D’altro canto, Cosimo fu un uomo riservato. Alto di statura e bello d’aspetto, come ce lo descrive Pio II nei suoi Commentarii , amava ritirarsi appena possibile nelle ville di Careggi e del Mugello, o isolarsi nel silenzio di una cella privata che aveva fatto riservare per sé entro le mura di San Marco, chiesa dotata su suo ordine — e per mano del fedele Michelozzo — di una stupefacente biblioteca. Ma se le incombenze non lo reclamavano al Palazzo della Signoria o al Banco Medici, lo si sarebbe potuto trovare anche nel chiostro di Santa Maria degli Angeli, dove sorgeva uno studium retto dal camaldolese Ambrogio Traversari.
Cosimo il Vecchio è, in sostanza, uno di quei personaggi della storia assai difficili da inquadrare. Diviso com’era tra la vocazione per gli affari, la politica, l’amore per i libri e gli ideali dell’umanesimo, nascondeva molti segreti. Uno dei quali ci viene rivelato dall’ambasciatore veneto Andrea Gussoni, che descrive il Medici dedito «a lavorare di lambicchi, formando molte acque e sublimati atti a medicar molte infermità». E, forse, a proteggere dagli avvelenamenti. Anche un’anima di alchimista, dunque, albergava in Cosimo de’ Medici. O così almeno sembrerebbe, a giudicare dall’interesse che egli nutrì verso l’esoterismo antico veicolato da figure come Marsilio Ficino attraverso la traduzione latina dei manoscritti del leggendario Ermete Trismegisto, giunti proprio in quel periodo dall’Oriente. Recuperando, insieme alla scienza dei talismani, dei tarocchi e dell’astrologia, il retaggio di un Medioevo da cui la stirpe dei Medici proviene, pur prendendone presto commiato per affacciarsi a un mondo diverso: una rinascita rivolta non solo all’arte, ma anche al governo, all’economia e al mercato.