Corriere La Lettura 9.10.16
Bersaglio Hitler, la lunga congiura
Il giudizio sul ruolo della Wehrmacht nel regime nazista continua a oscillare fra poli opposti
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Libri Saggistica
Terzo
Reich I militari tedeschi complottarono fin dal 1938 contro il
dittatore, ma il cedimento franco-britannico a Monaco li paralizzò.
Prima progettarono di processarlo, poi (durante la guerra) di ucciderlo,
ma senza successo
di Sergio Romano
Vi fu una
fase durante la quale sembrò che le forze regolari dell’apparato
militare tedesco avessero diritto a un giudizio benevolo. Molti
ufficiali superiori appartenevano alla casta militare prussiana. Avevano
combattuto per la patria piuttosto che per il regime e lo avevano
fatto, per quanto possibile, senza tradire il codice d’onore iscritto
nella loro tradizione e formazione. Ma, qualche anno dopo, questo
giudizio è stato in parte rovesciato da nuove ricerche. Molti ufficiali
erano nazisti. Altri erano grati al Führer per avere «salvato» la
nazione dalla minaccia bolscevica e restituito al Paese un ruolo
determinante nel sistema europeo. Lo avevano apprezzato, in particolare,
quando nel 1934 aveva fatto uccidere l’intero gruppo dirigente delle SA
in una notte definita «dei lunghi coltelli». La brutalità e la ferocia
con cui Hitler si era sbarazzato di un corpo paramilitare del Partito
nazista avrebbe dovuto insospettirli e suscitare una sdegnata
riprovazione. Ma i militanti delle Sturmabteilung (reparti d’assalto)
volevano sostituire il vecchio esercito prussiano con una forza armata
popolare, e di fronte a una tale prospettiva gli interessi della
corporazione prevalsero su qualsiasi considerazione morale. Scoppiata la
guerra, alcune formazioni della Wehrmacht trattarono le popolazioni
civili con grande durezza, soprattutto in Polonia, e nelle
Einsatzgruppen (una sorta di task force ) furono entusiasticamente
complici dei massacri degli ebrei in vaste zone del Baltico, della
Bielorussia e della Ucraina.
Oggi il libro dello storico
israeliano Danny Orbach pubblicato da Bollati Boringhieri, Uccidere
Hitler , aggiunge nuovi elementi e descrive una Wehrmacht in cui la
dissidenza si manifesta prudentemente sin dagli inizi del regime ma
cresce negli anni sino a divenire una fitta rete composta da alti gradi
delle forze armate. Nel 1938, durante la crisi cecoslovacca, ne facevano
parte, tra molti altri, un ex capo di stato maggiore dell’Esercito
(Wilhelm Beck), il suo successore (Franz Halder), il responsabile del
servizio segreto delle forze armate (l’ammiraglio Canaris), uno stretto
collaboratore di Canaris (Hans Oster), il generale Carl-Heinrich von
Stülpnagel, futuro comandante della Francia occupata, il generale Erwin
von Witzleben, comandante del distretto difensivo della Grande Berlino.
Il
loro obiettivo, allora, non era l’uccisione di Hitler. Volevano
arrestarlo, deferirlo a un tribunale speciale, costituire un governo
d’emergenza. Occorreva tuttavia colpire il regime nazista nel momento in
cui il progetto di Hitler per l’annessione del Sudetenland (la regione
della Cecoslovacchia abitata da una popolazione di lingua tedesca)
avrebbe sofferto un clamoroso scacco diplomatico. Occorreva, in altre
parole, che la Gran Bretagna si opponesse risolutamente alle ambizioni
di Hitler. Ma accadde esattamente il contrario. Quando il primo ministro
britannico Neville Chamberlain decise di ricercare una intesa a tutti i
costi e accettò, insieme al presidente del Consiglio francese Édouard
Daladier, l’idea avanzata da Mussolini per una conferenza a 4 in
Baviera, Hitler vinse la partita e divenne intoccabile. I congiurati
dovettero rinunciare al progetto e rientrare nell’ombra.
L’aggressione
alla Polonia nel settembre 1939 confermò i loro timori. Hitler stava
facendo la guerra che aveva sempre desiderato ed esponeva il suo Paese
al rischio di un conflitto mortale. È questo il momento in cui l’idea di
un processo al dittatore lasciò il campo a quella di un complotto per
la sua morte. Il cambio di strategia non fu facile. Come Danny Orbach
ricorda più volte, i congiurati, con qualche eccezione, erano
conservatori e nazionalisti. Il gruppo comprendeva persino generali che
volevano offrire la pace agli Alleati, ma contro la restituzione dei
territori nazionali che la Germania aveva dovuto cedere con il trattato
di Versailles dopo la Grande guerra.
Per uccidere Hitler vi
furono, prima del luglio 1944, almeno due tentativi falliti. Ma nel
frattempo accaddero due cose che avrebbero influito sul corso degli
eventi. In primo luogo, dopo la vittoria sovietica a Stalingrado era
sempre più evidente che la guerra, sul fronte orientale, non poteva
essere vinta. In secondo luogo, arrivò allo stato maggiore un giovane
colonnello che aveva perduto un occhio e una mano sul fronte libico. Si
chiamava Claus von Stauffenberg, aveva una formazione romantica e un
alto concetto di sé, voleva lasciare un segno nella storia del suo Paese
ed era convinto che la morte di Hitler fosse necessaria alla
sopravvivenza della Germania come nazione civile. Ma l’impresa, nel
frattempo, era sempre più difficile.
Come disse a Mussolini nel
giorno dell’attentato del 1944, Hitler era convinto di essere protetto
da una sorta di provvidenza divina. Nel novembre 1939 aveva lasciato
anzitempo la birreria di Monaco dove i suoi fedeli stavano commemorando
il putsch fallito del 1923, e aveva evitato la bomba di un attentatore
solitario, Georg Elser, che aveva fatto saltare in aria l’intero
edificio. Per la sua protezione poteva contare su una numerosa guardia
del corpo, indossava un corsetto antiproiettile e aveva ormai
l’abitudine di cambiare programmi all’ultima ora. I cospiratori decisero
che occorreva colpirlo durante una riunione nella sua «tana del lupo»,
in Prussia orientale, e Stauffenberg, che aveva già portato a Hitler
messaggi dello stato maggiore, si offrì come esecutore dell' impresa.
Il
resto è in buona parte noto ma il libro di Orbach aggiunge elementi
meno conosciuti. Quando von Stauffenberg, dopo l’esplosione della bomba,
tornò a Berlino e annunciò la morte del Führer, i congiurati
cominciarono a realizzare un piano che prevedeva la immediata adesione
all’impresa dei comandanti di numerose forze dislocate in Germania e nei
Paesi occupati. Ma Hitler non era morto e le sue telefonate, nel
frattempo, stavano raggiungendo alcuni dei suoi principali
collaboratori. A quelli fra i congiurati che cominciavano a esprimere
dubbi, Stauffenberg, tuttavia, continuò a dire che aveva visto il
cadavere di Hitler. Non era vero ma il colonnello sperava che l’esempio
dato dai congiurati divenisse la valanga che avrebbe sepolto il regime.
Il
risultato fu disastroso. Incoraggiati dall’audace strategia di von
Stauffenberg, i rifugiati uscirono all’aperto. Quando entrarono in
azione, le SS e la Gestapo conoscevano i loro nomi, sapevano dove
arrestarli. Stauffenberg e i suoi più vicini collaboratori furono
passati per le armi nel cortile della Benderstrasse, una sorta di
Pentagono tedesco nel centro di Berlino. Altri, prima della morte,
furono brutalmente torturati e interrogati. Ma il maggior numero fu
consegnato a tribunali dell’inquisizione, presieduti da
pseudo-magistrati che zittivano gli imputati e li coprivano di insulti.
Molte impiccagioni furono eseguite nel carcere di Plötzensee con ganci
da macellaio e corde di pianoforte. Vi furono infine anche i suicidi,
fra cui quello tentato di Stülpnagel in Francia e quelli dei
feldmarescialli Rommel e Kluge. I condannati furono un centinaio, ma le
esecuzioni ricominciarono nelle ultime settimane della guerra, quando il
regime, vicino alla sconfitta, mise a morte quei congiurati ancora
vivi, fra cui l’ammiraglio Canaris, che potevano divenire imbarazzanti
testimoni delle malefatte del Reich.
Il libro termina nei pressi
del Brennero, dove le guardie tedesche, dopo avere girovagato per la
Germania, liberarono un gruppo di prigionieri con cui Heinrich Himmler,
capo delle SS, sperava di comperare la sua impunità. Fra gli ostaggi vi
era anche Fey von Hassell, figlia di un congiurato impiccato nel carcere
di Plötzensee (l’ex ambasciatore a Roma, Ulrich von Hassell) e moglie
di un ufficiale italiano, Detalmo Pirzio Biroli.