Corriere La Lettura 9.10.16
Il congiuntivo è vivo e ha la pelle dura
Gli
allarmi per la scomparsa del modo verbale si susseguono da
settant’anni. Gli errori nel suo uso non mancano ma tutti gli indizi
confermano che non corre rischi (in Francia invece è già defunto)
di Giuseppe Antonelli
La
quarta di copertina di uno degli ultimi libri di Paolo Villaggio,
quello intitolato Mi dichi. Prontuario comico della lingua italiana ,
recitava così: «Il congiuntivo è una cagata pazzesca». Una frase
rivelatrice, visto che il congiuntivo sostituisce qui l’originale
riferimento alla Corazzata Potëmkin di Ejzenštejn (nella celebre scena
del film Il secondo tragico Fantozzi ). Ovvero il congiuntivo come un
vecchio classico ormai superato: un arcaico cimelio che la cultura snob e
passatista cerca periodicamente di riesumare.
L’estrazione del lutto
Questo
è il risultato di una morte annunciata per decenni. Fatto tutt’altro
che isolato quando si parla di lingua: stando alla vox populi — anzi —
potremmo tranquillamente dire che il congiuntivo è morto, il punto e
virgola è morto e anche l’italiano non si sente tanto bene.
È
quell’atteggiamento irrazionale della psicologia collettiva che potremmo
definire «estrazione del lutto». L’irresistibile tendenza a evocare di
volta in volta — indipendentemente dalla realtà dei fatti — la morte di
tempi, modi, segni d’interpunzione (quando non di interi generi
letterari o della letteratura in sé). Anche se si tratta sempre di una
morte apparente.
Curioso, per contro, che lo stesso riflesso
catastrofista non scatti quando davvero qualche istituto linguistico
scompare all’orizzonte. Non c’è nessuno, ad esempio, che gridi alla
tragedia per la scomparsa ormai irreversibile del trapassato remoto.
Nessuno ne piange il trapasso proprio perché in questo caso si tratta a
tutti gli effetti di un fossile grammaticale. Nessuno da tempo lo usa
più: e allora, inutile piangere sul latte trapassato.
Morto, vivo o congiuntivo
Della
presunta morte del punto e virgola, invece, si parla almeno da
ottant’anni; di quella del congiuntivo da quasi settanta. «Come in tutti
gli esami di concorso — si leggeva nel 1950, in un numero della rivista
“Il Ponte” — si constata che la scuola non insegna più la lingua
italiana, sì che si scrive sgrammaticato e senza sintassi (c’è tra
l’altro nei giovani la morte del congiuntivo)». L’apocalittica profezia è
stata condivisa anche da esimi linguisti. Rispondendo a un’inchiesta
del 1962 sulla Lingua del Duemila , Giacomo Devoto prevedeva — tra le
altre cose — l’imminente scomparsa del congiuntivo.
Questa
percezione allarmistica continua ininterrottamente fino ai giorni
nostri. Una decina d’anni fa, una classe di una scuola media mantovana
lanciò con grande successo il Sic («Salviamo il congiuntivo»):
un’associazione nata per proteggere quel modo «dai nuovi barbari». Di
recente, un cantautore professore — Davide Zilli — ha scritto una
canzone che s’intitola Il congiuntivo se ne va («e mentre cambia la
grammatica/ ci guarderanno come un vecchio trofeo»).
Mi facci finire
A
differenza di quanto è accaduto in francese, in realtà, il congiuntivo
in italiano continua a essere usato spesso e volentieri. Anche se non
sempre in maniera impeccabile, come ci dice la cronaca politica delle
ultime settimane. Dal fantozziano (giustappunto) «mi facci finire» di
Alessandro Di Battista al «come vi sareste comportati voi se questi
accadimenti avrebbero riguardato altri partiti» di Michela Di Biase fino
al più recente «come se presentassi venti esposti contro Renzi, lo
iscrivessero al registro degli indagati, poi verrei in questa piazza e
urlerei Renzi è indagato» di Luigi Di Maio.
Alla fine del 1997, un
panettiere di nome Luigi — entusiasta sostenitore del neosenatore
Antonio Di Pietro — dichiarava in un’intervista: «Finalmente il partito
del popolo ha candidato un uomo del popolo. Uno che sbaglia i
congiuntivi come noi». Di strage dei congiuntivi — stavolta per
omissione — è stato accusato anche Massimo D’Alema (per frasi come «io
ritengo che questa vicenda dimostra che lui è un prepotente») e, in
epoca di prima Repubblica, Bettino Craxi («io penso che le nostre
possibilità sono limitate»). Commentava Luciano Satta: «Il potere logora
i congiuntivi di chi lo detiene».
E pensare che nell’ottobre del
1947, in una seduta dell’Assemblea Costituente, uso e significato di un
congiuntivo erano stati al centro di un serrato dibattito tra Giuseppe
Dossetti, Umberto Terracini e Palmiro Togliatti. «Spero che il gruppo
democristiano non pretenderà di farci cambiare la grammatica italiana
col peso dei suoi 207 voti», tuonò a un certo punto il segretario
comunista.
Abbondandis in abbondandum
Lo stesso Satta,
peraltro, in un libro del 1994 intitolato Ma che modo. Usi e abusi del
congiuntivo scriveva, a scanso di equivoci: «L’ho detto e ridetto che il
congiuntivo è prospero». Un giudizio confermato, dati alla mano, da
tutti gli studi successivi basati su diversi insiemi di testi: dai
fumetti alle canzoni, dai giornali ai romanzi. Il principale cambiamento
rispetto al passato, ci spiegano questi studi, sta nel peso dei fattori
che determinano la scelta tra indicativo e congiuntivo. Delle tre
funzioni che il congiuntivo ha sempre avuto nella storia dell’italiano
(segnalare una frase subordinata, distinguere tra certezza e
probabilità, innalzare il livello stilistico) quella che prevale
largamente negli ultimi anni è la terza: la funzione stilistica. Il
congiuntivo viene percepito come un modo più accurato, fine, elegante.
Questo
spiega come mai i linguisti si trovino a segnalare sempre più spesso —
nelle correzioni fatte dai redattori delle case editrici, ma anche nei
discorsi che si sentono per strada o in tv — congiuntivi usati là dove
la norma richiederebbe un semplice indicativo. In molti, spinti
dall’idea di fare bella figura, cadono in quell’errore che in
linguistica si chiama «ipercorrettismo». Come Carlo Sibilia, che in un
post di qualche tempo fa su Facebook scriveva: «Meno male che Renzi sia
stato fischiato durante il dibattito con il presidente dell’Anpi...
Credo che se il Tg1 non abbia detto neanche una parola su quanto è
accaduto vuol dire che siamo oltre il regime». O oltre la grammatica. «
Abbondandis in abbondandum », come diceva Totò nel dettare a Peppino la
famosa lettera per la malafemmina: se no poi «dicono che siamo
provinciali, siamo tirati».