domenica 9 ottobre 2016

Corriere La Lettura 9.10.16
Palmira uccisa dalla gelosia e dall’invidia
Paul Veyne è uno dei massimi conoscitori del mondo romano. Sulla distruzione da parte dell’Isis del sito siriano ha una teoria che chiama in causa storia e psicologia. E dice: «Non va ricostruita»
intervista di Stefano Montefiori

Quando il mondo seppe che Palmira era stata conquistata e distrutta dall’Isis, nell’estate del 2015, l’indignazione fu immediata anche tra coloro — la maggior parte — che non c’erano mai stati o non sospettavano la sua esistenza. Non occorreva essere storici dell’arte o conoscitori dell’impero romano per capire l’assurdità di accanirsi contro i templi pre-islamici e i loro curatori. Per Paul Veyne, uno dei più grandi storici ed esperti di Roma antica al mondo, quel saccheggio e quell’orrore furono invece un trauma personale, una catastrofe intima. Veyne, che già 15 anni fa collaborò con Gérard Degeorge per scrivere un ponderoso e erudito volume su Palmira, dopo la sua distruzione ha scritto un altro libro, pubblicato ora in Italia da Garzanti, per raccontare a tutti che cosa fosse quella città, qual è stato il suo ruolo nell’antichità, come vivevano i suoi abitanti. Un modo per ricostruirla.
Perché Palmira è così speciale per lei?
«Sono ossessionato da Palmira dall’adolescenza, lessi un libro su quella città fantastica che ero un ragazzino, 70 anni fa».
Come ha reagito quando ha saputo della sua distruzione?
«Ero folle di rabbia, mi è persino venuto l’istinto di prendere il mio fucile da caccia. Fortuna che non avevo le munizioni (ride, ndr ). Ero furioso ma non sorpreso, perché tutto il Medio Oriente è saccheggiato da questi barbari che distruggono qualsiasi monumento di epoca pre-islamica. L’archeologo Khaled al-Asaad e gli altri sono stati uccisi perché “si interessavano agli idoli, erano degli idolatri”».
Crede che sia quella la vera ragione?
«Io penso di no, anche se è una mia supposizione. Agli inizi del Novecento i politologi prendevano in conto anche la gelosia e l’invidia come motori delle relazioni internazionali. Un francese sapeva bene di essere geloso nei confronti dei britannici e anche il nostro antiamericanismo nasce dalla frustrazione, dal fatto che Parigi non è la più grande città del mondo. Oggi non se ne parla più ma io sono convinto che l’Isis sia spinto anche da queste passioni. Si considerano il migliore popolo del mondo perché pensano di avere la religione più grande ma sono invidiosi di noi perché sanno che in fondo siamo molto più forti di loro».
Il suo libro è un modo per ridare vita alla città?
«Sì, descrivo la vita quotidiana degli abitanti quando Palmira faceva parte dell’Impero romano. La vita quotidiana è la realtà. Anni fa ho scritto un grande libro scientifico su Palmira e ho passato tre mesi in biblioteca a leggere tutto quel che è stato scritto su quella città in tutte le lingue, italiano, tedesco, francese, spagnolo e inglese. Ho letto tutta la bibliografia esistente e questo ha lavorato nella mia testa».
Quindi, com’era Palmira?
«Intorno all’anno 200 dopo Cristo, chi arrivava a Palmira capiva subito di essere giunto in un luogo diverso dagli altri. Era la città delle carovane, una specie di porto senza mare, alle pendici del deserto. E poi una città dove coesistevano due lingue: il greco, che era l’idioma ufficiale e internazionale come l’inglese oggi, e l’aramaico, la lingua di Gesù Cristo. Gli abitanti erano vestiti in modo diverso dagli altri cittadini dell’impero romano: portavano vestiti cuciti, non drappeggiati, e un pugnale alle cintola nonostante il divieto di porto d’armi. Il volto delle donne non era velato, a differenza di quel che accadeva in alcune regioni del mondo ellenico. C’era un insieme di civiltà greco-romana e di cultura orientale. La prosperità di Palmira è stata resa possibile dal fatto che era posto sulla via più breve fra il Mediterraneo e le acque blu dell’Eufrate».
È giusto definire Palmira «la Venezia del deserto»?
«Venezia è una città molto originale che non assomiglia alle altre città italiane, è una porta verso l’Oriente. Palmira era una Venezia di terra, ricca grazie al commercio dell’avorio e della seta con l’India e la Cina. Palmira non era una città siriana come le altre, così come Venezia, a contatto con la civiltà bizantina e con i Turchi, non è rappresentativa dell’Italia».
Qual era il rapporto di Palmira con Roma?
«Palmira dipendeva da Roma, dal governatore romano della provincia di Siria, ma faceva un po’ come voleva».
Perché Roma le ha lasciato quel grado di indipendenza?
«Perché era una città lontana e perché comunque Palmira preferiva restare con Roma piuttosto che sottomettersi al re dei Persiani».
C’è poi il personaggio mitico della regina Zenobia.
«Che non era una vera regina ma apparteneva alla famiglia aristocratica che, come i Medici a Firenze, finì per avere il predominio su tutte le altre. Provò a fare diventare suo figlio imperatore di Roma e non era una pretesa irragionevole. Suo figlio era l’uomo più celebre del suo tempo e aveva ai suoi ordini i suoi fedeli e due o tre legioni romane».
Zenobia a Palmira si interessava anche al giudaismo.
«Certo, perché Zenobia era un’intellettuale e a quell’epoca la religione d’avanguardia, la più celebre era il giudaismo, più ancora del cristianesimo. Molte dame romane si convertivano al giudaismo o andavano alla sinagoga. Non c’era antisemitismo e l’idea di un solo dio sembrava innovativa e interessante. Era normale interessarsi all’ebraismo come alla filosofia allora di grido, cioè il neoplatonismo».
Qual era il grado di libertà religiosa?
«Totale. Ognuno poteva adorare gli dei che voleva. Si apriva un tempio di un dio straniero come si potrebbe oggi aprire un negozio. Ecco perché si sono accaniti contro Palmira».
Che ruolo aveva Bel, la divinità del tempio che è stato distrutto dallo Stato islamico?
«Il tempio di Bel appariva alla fine di un lunghissimo colonnato, che era rassicurante perché le colonne erano il segno architettonico ricorrente in tutto l’impero. Ma Bel era un dio specifico di Palmira, locale, una specie di protettore come Sant’Antonio. Poi venivano adorate divinità di tutti i tipi, mesopotamiche, arabe o persiane. Quando gli abitanti di Palmira scrivevano in greco, traducevano Bel con Zeus. Ammettevano l’esistenza degli dei degli altri popoli».
Nel suo libro lei racconta che verosimilmente fu Antiochia, la capitale della Siria, ad avere il primo colonnato.
«Sì. Ernest Renan parla di “centinaia di colonne, tutte del medesimo diametro, ornamento di qualche insulsa rue de Rivoli”. Non amava né questo sviluppo urbanistico né Napoleone, che a Parigi creò il colonnato di rue de Rivoli, in effetti oggi non una gran via».
Avrebbe senso provare a ricostruire Palmira?
«No, io non credo, anzi spero che non ci provino perché dovrebbero ricorrere a dei falsi. La nuova Palmira non avrebbe senso da un punto scientifico e non riconquisterebbe il valore sentimentale perduto. Molte rovine sono state polverizzate, non ci sono più dei blocchi interi che potrebbero essere riutilizzati. Meglio allora usare il computer e farne una versione virtuale a tre dimensioni».