Corriere La Lettura 9.10.16
Il pozzo delle Grandi Civiltà
Sul
confine fra Turchia e Siria, a un passo dai territori contesi,
Karkemish conserva i segreti di popoli e dinastie scomparse. Sfidando i
cecchini, gli archeologi italiani hanno scavato in profondità trovando
strati di reperti: «I vincitori facevano come l’Isis, eliminavano o
disperdevano gli abitanti e distruggevano tutto»
Una grande
collina è oggi divisa tra postazioni militari e studiosi. Qui gli
Ittiti esaltarono le loro conquiste prima di essere schiacciati dagli
Assiri. E qui si costruì casa Lawrence d’Arabia
di Lorenzo Cremonesi
A
Karkemish c’è un pozzo. Lo si distingue appena tra le pietre antiche, i
resti di mura, di strade pavimentate, delle colonne che tennero in
piedi edifici fastosi. Un buco nero che avrebbe dovuto cancellare e far
dimenticare per sempre intere civiltà, ma che con un paradosso ironico
adesso contribuisce a salvarne la memoria. Per arrivarci occorre
viaggiare tra il susseguirsi di colline arse, campi di pistacchi, lungo
la linea di verde rigoglioso che marca le rive dell’Eufrate, per
giungere al cuore di uno dei siti più celebri per generazioni di
archeologi sui resti del palazzo reale. Monarca dopo monarca, regno dopo
regno, qui stava il potere. E da tempo immemorabile in questo pozzo
ogni volta i nuovi conquistatori gettavano l’anima e la memoria del
nemico battuto. Una sorta di pattumiera millenaria destinata a marcare
l’onta di generazioni di sconfitti. L’ennesima prova del fatto che da
che mondo è mondo gli uomini si fanno la guerra. E, da quando esiste la
guerra, l’idea dominante resta la distruzione dell’altro, il suo
annientamento, la cancellazione della sua identità profonda.
«Vieni
a Karkemish e tra le tante cose capisci che l’Isis non ha inventato
nulla. Sin dall’antichità gli assedi delle città terminavano spesso con
la sostituzione di una civiltà con l’altra. La conquista implicava lo
sterminio, la riduzione in schiavitù o l’allontanamento verso le
periferie delle popolazioni sconfitte. Ma c’era di più: i vincitori
tendevano a cancellare i simboli, picconare e spezzare le immagini
identitarie, la cultura e gli alfabeti del nemico caduto nella polvere»,
spiega a «la Lettura» Nicolò Marchetti mostrando l’apertura del pozzo
scavato tra i resti dei mosaici pavimentali di quello che per secoli,
addirittura millenni, fu probabilmente l’edificio più importante
dell’antico nucleo urbano.
A prima vista parrebbe uno dei tanti
anfratti tipici dei siti archeologici a più strati, una fessura che
svela i livelli bassi delle fondamenta di città costruite le une sulle
altre. «In verità, noi archeologi italiani e turchi vi abbiamo dedicato
lunghi mesi di scavo. Sino ad arrivare a oltre 14 metri di profondità e
scoprire che qui ogni volta i conquistatori gettavano i manufatti, le
stele coperte di geroglifici, le tavolette scritte, le statue, i vasi,
insomma le testimonianze di appartenenza collettiva culturalmente più
rilevanti degli avversari appena conquistati», aggiunge Marchetti, il
capo missione, inviato dall’università di Bologna in cooperazione con
quelle turche di Istanbul e Gaziantep.
Storia, archeologia e
testimonianza della violenza: da almeno un secolo e mezzo gli studiosi
di tutto il mondo guardano a queste pietre con immutato interesse. I
primi insediamenti risalgono al quinto millennio avanti Cristo,
abbondano i bassorilievi di carri militari trainati da cavalli, scene di
battaglie, fanti con scudi e lance, si ritrovano come sassolini sparsi
sul terreno le punte di freccia. Ma è dalla seconda metà del terzo
millennio, quando la città è per la prima volta citata negli archivi di
Ebla, che essa diventa dominante. Ittiti, assiri e babilonesi fanno a
gara per conquistarla. Sino poi sparire progressivamente nell’oblio
sotto Roma. Tanti paragonano Karkemish per rilevanza a Troia, Ur,
Gerusalemme, Petra, Babilonia, Palmira, Ebla. Il British Museum vi
lancia diverse campagne esplorative dopo il 1876. Persino Lawrence
d’Arabia vi scavò con passione dal 1911 al 1914. E adesso i risultati di
cinque anni di ricerche italo-turche ne rilanciano l’importanza.
Proprio sul fondo del pozzo le scoperte più rilevanti: tre frammenti di
tavolette in argilla con incisi a caratteri cuneiformi ben leggibili gli
scritti di Sargon II, celebre re assiro, che verso la fine dell’VIII
secolo avanti Cristo creò uno dei più potenti imperi della Mezzaluna
Fertile.
La vicenda è nota agli storici. Ma oggi le drammatiche
cronache della regione e persino lo stesso luogo dove è situata la
grande collina di Karkemish creano una sorta di filo rosso cruento tra
gli eventi bellici di allora e quelli odierni. L’antica acropoli, nella
parte più alta, dove si pensa possa essere sepolto un archivio di
tavolette cuneiformi forse simile a quello che ha immortalato Ebla, non
molto distante da qui, è adesso occupata da una base militare guarnita
di trincee, casematte, mitragliatrici pesanti e carri armati della
Quinta Brigata corazzata turca. Nonostante le autorità di Gaziantep
sperino di fare del sito un’attrazione turistica entro l’estate 2017,
per ora si entra solo con uno speciale lasciapassare militare. È
assolutamente vietato fotografare le postazioni belliche, ordine che
spesso obbliga gli archeologi a censurare pesantemente le loro immagini
del sito. L’area è larga almeno 92 ettari, di cui però 35 sono in zona
siriana considerata ad alto rischio a causa della presenza di bombe
inesplose e trappole. Per renderlo accessibile agli archeologi nella
parte turca sono state bonificate oltre 1.300 mine, i campi tutto
attorno ne sono ancora infestati. Oggi come allora questo è un luogo di
confini contesi: a nord la Turchia, a est i curdi siriani, a sud la
Siria insanguinata dalla guerra. E anche agli italiani non sono mancati
incidenti: ogni tanto un missile, una bomba, un proiettile, cadono nelle
vicinanze. «Scavavamo sapendo che i cecchini dell’Isis ci seguivano con
i cannocchiali dei fucili ad alta precisione», ricorda Marchetti. Ogni
tanto si ode uno sparo, una raffica, uno scoppio. A poche decine di
metri scorre l’Eufrate che, assieme alla ferrovia costruita dai tedeschi
nel primo decennio del Novecento, segna il confine con la Siria. E
proprio di fronte al sito, oltre l’alto muro in cemento grigio
sovrastato da filo spinato voluto da Ankara in marzo per bloccare
trafficanti, profughi e radicali islamici, sta Jarablus, che sino a
poche settimane fa costituiva una delle roccaforti più agguerrite del
Califfato di Al Baghdadi.
«Il 24 agosto il nostro esercito è
intervenuto per scacciare l’Isis e creare una barriera contro le milizie
dei curdi siriani. Ora le posizioni del Califfato sono spostate più a
sud di 30 chilometri. I curdi invece restano arroccati con le loro armi
sulle colline qui di fronte», indicano gli amministratori a Gaziantep,
che non vogliono sia pubblicato il loro nome per il semplice fatto,
ammettono, «che dal giorno del fallito golpe militare contro il
presidente Erdogan a metà luglio siamo tutti sospettati e possibili
indiziati. Tanti tra noi amministratori, archeologi e studiosi sono
stati arrestati. Nessuno può sottovalutare l’eventualità di poter essere
chiuso in cella in qualsiasi momento».
Non ci sono dubbi:
l’involuzione totalitaria della Turchia contemporanea influenza
pesantemente anche i ricercatori delle antichità. «Gli Ittiti si
impadronirono della città più o meno nel 1350 avanti Cristo. È il
momento di massimo splendore. Ma poi il loro regno si indebolisce,
Karkemish diventa allora una potente città-Stato. Sino a che nel 717
l’assiro Sargon II non la conquista e dà vita a una sorta di welfare
state dell’età classica. Lui ce lo descrive nelle tavolette che poi nel
605 il babilonese Nabucodonosor II, trionfante sugli Assiri dopo un
lungo e sanguinoso assedio, farà gettare nel pozzo. Sono resoconti
dettagliati e certamente di autopromozione delle sue opere pubbliche,
che vanno dal rafforzamento delle già poderose mura difensive ripide e
alte oltre trenta metri sulla piana circostante, alle dighe
sull’Eufrate, ai canali per l’irrigazione dei campi», racconta
entusiasta Hasan Peker, filologo dell’università di Istanbul.
Ho costruito, aperto nuovi corsi d’acqua, incrementato la produzione del grano, rinforzato
le
porte con cerniere di bronzo, allargato i granai, costituito un
esercito con 50 carri, 200 cavalli, tremila fanti… e ho reso il popolo
felice, fiducioso in se stesso si legge dalle traduzioni. Una parte dei
ritrovamenti viene dal deposito dell’abitazione di Lawrence. Una vicenda
che ancora una volta si intreccia con i grandi eventi della storia
mondiale. Nel 1911 il 23enne neo-laureato a Oxford con una tesi sui
castelli crociati è affascinato dalle ricerche sul campo. Nel cuore
della cittadella di Karkemish fa costruire la sua abitazione, che ospita
anche la camera oscura per lo sviluppo delle lastre fotografiche, e un
deposito di materiali. Ogni anno vi trascorre lunghi mesi di lavoro, è
un ricercatore coscienzioso, attento. Nel tempo libero studia l’arabo,
che impara alla perfezione. Qui sboccia anche la relazione amorosa con
il suo assistente arabo, Dahoum, che poi morirà di febbre spagnola nel
1918 e a cui Lawrence dedicherà il suo I Sette Pilastri della Saggezza .
Ricorda
Marchetti: «Nel maggio 1914 il giovane inglese finisce la sua campagna
di scavi, pronto a tornare in settembre. Ma in mezzo scoppia la guerra.
Ogni attività viene bloccata». La zona diventa off limits. Nelle sue
vicinanze si consuma la tragedia armena. Crolla l’impero ottomano.
Lawrence è in prima fila ad aizzare gli arabi contro i turchi. Da qui
transitano poi i nuovi, controversi confini imposti dalla potenze
coloniali vittoriose. Ma appena dopo Ataturk, il grande padre del
moderno nazionalismo turco-anatolico, scaccia gli stranieri, a maggior
ragione se sono inglesi. Si bloccano le spedizioni archeologiche
internazionali: su Karkemish calano polvere e silenzio. Lawrence non
avrà mai più modo di tornare sul posto. Ogni ricerca tace. Non pare vi
siano stati furti rilevanti, non si registrano tombaroli. Semplicemente
il sito viene usato come cava, violato dall’espansione urbana,
danneggiato dalla presenza dei militari.
Sino al 2011, quando
arrivano gli italiani coadiuvati dai ricercatori locali e iniziano
subito a scavare presso il rudere della casa di Lawrence. «Come
d’incanto abbiamo ritrovato migliaia e migliaia di reperti che gli
inglesi non avevano mai più potuto recuperare. Erano il loro deposito
rimasto abbandonato per un secolo. Dunque le prime fasi del nostro
lavoro sono state assolutamente proficue, addirittura strabilianti»,
ammettono gli archeologi.
È così la spedizione italo-turca a
gettare luce e dare un senso compiuto al materiale trovato da Lawrence e
i suoi colleghi. Dal 2012 i manufatti vengono catalogati e
metodicamente studiati. Oggi la successione delle civiltà che per quasi
sei millenni abitarono Karkemish è stata datata e compresa. «Le nostre
prossime ricerche vorrebbero concentrarsi sulla parte siriana. Questa
venne brevemente vista da archeologi anglo-americani prima dello scoppio
delle primavere arabe nel 2011. Ma non è stato affatto sufficiente»,
spiegano. Tre settimane fa con Marchetti abbiamo provato ad attraversare
il confine per visitare l’area di Jarablus. Ma i soldati turchi stavano
facendo brillare le mine e ci è stato vietato. Per quello che si è
potuto capire tuttavia, al contrario di altri siti celebri in Iraq e
Siria, qui non c’è stata alcuna metodica attività di rapina e
trafugamento di manufatti. L’Isis si è preoccupata solo di fare la
guerra e scavare trincee. «Non temiamo i tombaroli, piuttosto lo
sviluppo urbano senza regole, che nel caos della guerra civile rischia
di danneggiare reperti importantissimi», dice Marchetti. Tuttavia, poco o
nulla garantisce che la situazione possa pacificarsi nel breve-medio
periodo. A Jarablus, ancora ferita dai crimini dell’Isis, l’esercito
turco deve tenere a bada almeno sei tribù e sette milizie locali
formalmente alleate al Nuovo Esercito Siriano Libero, la coalizione di
forze sostenute da americani e turchi che combatte l’Isis e allo stesso
tempo il fronte legato a Bashar al-Assad. Ma è lo stesso Rahmo
Kocaaslan, il notabile turco incaricato da Ankara di supervisionare
l’amministrazione di Jarablus, a confidarci che «queste stesse milizie e
forze siriane locali sono in costante attrito tra loro, litigano per
nulla: dal controllo della distribuzione del pane alla gestione
dell’acqua e dell’energia elettrica fornite da noi turchi».
Nel
2010 la città aveva 30 mila abitanti, scesi a 20 mila con l’Isis. Ora se
ne contano 23 mila, ma in grande maggioranza sono profughi di altre
località siriane che abitano come squatter nelle case abbandonate.
Aleppo dista un’ottantina di chilometri in linea d’aria. Gli echi della
battaglia arrivano forti su questo tratto di confine. E le memorie
lunghe del pozzo nel palazzo di Sargon non fanno che sottolineare quanto
sia pesante, minaccioso e distruttivo il retaggio della guerra.