domenica 2 ottobre 2016

Corriere La Lettura 2.10.16
Il capitalismo italiano non è capitalismo
di Dario Di Vico

Al bando ambiguità e ipocrisie: l’Italia non è fatta per le grandi imprese. Ne prenda atto ed elabori un nuovo modello che le permetta di «ritrovare il proprio posto nel mondo». Giuseppe Berta torna in libreria con un agile volume e con un titolo dal punto interrogativo (Che fine ha fatto il capitalismo italiano? , il Mulino) e lo fa per sostenere che le aziende italiane sono ormai distanti dai vertici dell’economia internazionale, stanno a loro agio in una fascia più bassa, in cui praticano il presidio di segmenti particolari o di snodi cruciali del ciclo produttivo. Non sono e non possono essere le incarnazioni di un capitalismo che oggi si muove con rapidità estrema e con la mobilitazione di risorse immense, chiaramente fuori della portata degli operatori italiani. «A meno che — ci ammonisce Berta — non si voglia convertire il capitalismo in una categoria onnicomprensiva, in un contenitore indifferenziato buono per ospitare ogni forma economica». Lo storico torinese non è in vena di sconti e avverte anche che raccontarci come una potenza industriale, il secondo Paese manifatturiero d’Europa, «è ormai una formula logora» e forse un tantino bugiarda. Meglio guardare in faccia la realtà.
In fondo il passaggio che Berta ci chiede è un downsizing delle ambizioni e lo fa però senza calpestare, o anche solo sottovalutare, i meriti di quel modello industriale più conosciuto come Made in Italy della moda, del design, del vino e delle macchine utensili. L’autore cita Campari e Lavazza, ma allude più in generale a una formula in cui l’individualismo dell’imprenditore si fa intelligenza, programmazione, concorrenza feroce, attenzione maniacale alla qualità e che ha saputo anche mutare il modello produttivo, evolvendo in maniera anche originale dalla fabbrica tradizionale fordista alla più moderna filiera. Nella quale — a differenza del vecchio indotto — apportano il loro contributo i fornitori come i top designer .
Per Berta, però, tutto ciò non è vero capitalismo e per sostenere la bontà della sua tesi si è assicurato almeno tre testimoni d’eccellenza. «Di sicuro — scrive l’autore — né Einaudi, né tantomeno Braudel e, con buona probabilità, nemmeno Fuà avrebbero ravvisato in queste espressioni dello spirito d’iniziativa italiana altrettante manifestazioni del capitalismo». Berta non si limita a citare i tre ma riavvolge il nastro: analizza meticolosamente le tesi di Einaudi, Fuà e Braudel e si appoggia in particolare allo storico francese per argomentare come le virtù dell’industria leggera all’italiana «si attagliano alla braudeliana sfera intermedia del mercato». Il capitalismo — ricorda — per Braudel è una sfera economica dove prevalgono gli operatori più grandi, prevalentemente despecializzati, soggetti capaci di mobilitare risorse ingenti di distanze lunghe e che tendono ad aggirare i mercati mediante l’organizzazione. Il mercato è il luogo, invece, dove economia e società si fondono, una realtà porosa dove i comportamenti umani non possono essere il frutto di una fredda razionalità di calcolo.
Il libro di Berta è destinato sicuramente a far discutere perché ha la forza della provocazione intellettuale e perché va a inserirsi in un momento di travaglio dell’industrialismo italiano. Abbandonare l’utilizzo del termine «capitalismo» di per sé non è un gran problema — se non per giornalisti e consulenti sempre a caccia di format —: in fondo è meglio riflettere sullo stato di salute dei singoli aggregati (tecnologia, capitale, lavoro, territori) che nascondersi dietro una narrazione invasiva. Se però dobbiamo cercare la vera discontinuità pensiamo che allora ci sia bisogno di un supplemento d’indagine: se è giusto sottolineare valore/limiti delle nostre multinazionali tascabili, forse vale anche la pena illuminare il contributo che possono dare le altre multinazionali, quelle grandi, quelle straniere. Berta fa benissimo a chiederci una manifestazione di coraggio intellettuale, ci induce però nella tentazione di alzare l’asticella. Fino a chiederci se abbia ancora senso ragionare del «capitalismo italiano» o forse bisogna iniziare a interrogarsi sul «capitalismo in Italia»? Altro punto interrogativo.