Corriere La Lettura 2.10.16
La reinvenzione della storia
Per capire il mondo meticcio serve un patto con l’antropologia
di Adriano Favole
Si
chiama Labyrin-thé il sito «patrimoniale» che ho visitato l’estate
scorsa, nel sud dell’isola di La Réunion, un dipartimento francese
dell’Oceano Indiano, a qualche centinaio di chilometri a est del
Madagascar. Situato a oltre mille metri di altitudine, il villaggio di
Grand Coude che ospita il sito è disteso su una stretta ed aerea
striscia di terra che, da una parte e dall’altra, strapiomba con falesie
quasi verticali verso le parti più basse dell’isola. L’attrazione
principale è un «labirinto» di sentieri di oltre un ettaro, ricavato in
un fittissimo bosco di alberi di tè e boschetti di bambù. Il nome gioca
ovviamente sulla presenza, nel termine francese labyrinthe , della
parola the . Mentre le mie figlie si perdevano e ritrovavano nel
labirinto, una guida ci portava in una vicina piantagione di gerani e in
campi di tè ancora produttivi.
I primi esploratori di Grand Coude
furono con tutta probabilità, a metà Ottocento, schiavi di origine
africana fuggiti dalle sottostanti piantagioni di canna da zucchero — La
Réunion ne è tuttora il maggior produttore europeo. A fine secolo
alcuni coloni francesi costruirono le prime abitazioni permanenti, per
sfruttare l’abbondante legname della foresta circostante. Furono loro a
introdurre, più tardi, la coltivazione del tè, in un periodo in cui la
domanda europea era particolarmente forte e i prezzi elevati. Con
l’apertura di colture e mercati asiatici, la piccola produzione locale
di tè cadde tuttavia in declino e fu sostituita da quella di gerani per
la distillazione di essenze base, destinate all’industria dei profumi.
Poco dopo la metà del secolo scorso anche la coltivazione di gerani ebbe
fine, per la concorrenza di essenze prodotte a minor costo in altre
parti di mondo: Grand Coude sopravvisse come luogo di allevamento di
bovini, per l’autoconsumo di carni e latte. Oggi, il turismo
patrimoniale ed «etnico» offre un’occasione di riscatto e il fittissimo
bosco di tè abbandonato e trasformato in labirinto, le residue piante di
geranio profumato, gli alambicchi di rame in cui si ricavava la
preziosa essenza dal fascino antico, attraggono i turisti di passaggio.
Grand
Coude è un sito che piacerebbe a Serge Gruzinski, autore di Abbiamo
ancora bisogno della storia? (Raffaello Cortina), perché consente di
definire e articolare bene la sua nozione di «storia globale» ( global o
world history come dicono gli inglesi). A Grand Coude si incontrano
perfettamente la storia globale e quella «nuova» antropologia che non
teme di tornare in luoghi concepiti a lungo e in modo errato come
«esotici» e «altri», e che si rivelano invece oggi profondamente
intrecciati con la storia e i destini delle società europee. Luoghi in
cui hanno preso forma società scaturite dall’incontro, dalla creatività e
dal meticciato; luoghi modellati dalle forze dure e spesso violente del
colonialismo e della globalizzazione, ma che hanno saputo a loro volta
resistere e ridefinire i flussi e le correnti globali.
«Privilegiare
una prospettiva globale significa concentrare l’attenzione sui rapporti
che le società intrattengono tra loro, sulle articolazioni e sulle
aggregazioni che costruiscono, ma anche sul modo in cui tali
organizzazioni umane, economiche, sociali, religiose o politiche
omogeneizzano il globo oppure resistono al movimento», scrive Gruzinski
nel quinto capitolo, una sorta di manifesto per una storia globale. Le
stratificazioni che lo storico e l’antropologo colgono sull’isola di La
Réunion ci riportano alle esplorazioni portoghesi del XVI secolo delle
vie marittime per le Indie; all’annessione francese della Réunion nel
secolo successivo per farne un’isola in cui rifornirsi di prodotti
agricoli freschi nei lunghi viaggi verso l’Oriente; allo schiavismo
volto alla lavorazione della canna da zucchero e alla resistenza dei
grandi latifondisti locali alla sua abolizione, nel 1848; alle risposte
locali alle domande globali del XX secolo (il legname, il tè, il
geranio) e oggi, all’epoca in cui il capitalismo prende la forma della
«collezione» e dello sfruttamento della memoria e dei siti
«patrimoniali», come hanno osservato Luc Boltanski e Arnaud Esquerre su
«Les Temps Modernes» nel 2014.
Una storia globale riconnette
società che condividono frammenti o parti consistenti di passato (e di
presente); inquadra gli eventi in una dimensione internazionale e
interculturale; i personaggi, gli accadimenti e i luoghi di cui si
interessa sono inevitabilmente locali, ma il locale non è più inteso
come «autentico» e «isolato» bensì come crocevia in cui è possibile
cogliere i movimenti, i flussi e le correnti della storia. Grand Coude
così è un pezzo di storia europea e non solo perché appartiene a
un’isola francese: la storia europea si è forgiata e ha forgiato gli
altri continenti, in un labirinto di fili intrecciati e interrotti che
storici e antropologi, insieme, possono cercare di dipanare. La
globalizzazione, non da oggi, prevede andate e ritorni, espansioni e
interruzioni. Inoltrarsi oggi nel labyrinthe de l’histoire in compagnia
di Gruzinski, insomma, significa evitare le storie etnocentriche ed
eurocentriche che ancora dominano molte accademie del vecchio continente
e, allo stesso modo, andare al di là dell’antropologia esotica,
affascinata da popoli totalmente altri-da-noi.