domenica 2 ottobre 2016

Corriere La Lettura 2.10.16
Greg Iles
«I bianchi tengono armi in cantina. Temo che esploda una guerra civile»
«Ho paura che l’incendio arrivi a bruciare i quartieri residenziali. Allora...»
intervista di Matteo Persivale

Greg Iles, lei scrive thriller che prendono i lettori per la gola: a lei cosa fa paura? «Che esploda una guerra. Una guerra razziale, neri contro bianchi. Non è una fantasia ma un pericolo reale. Tutte queste rivolte, nelle comunità afroamericane, quando l’ennesimo nero viene ucciso da un poliziotto, devastano i quartieri dei neri. Se l’immagina cosa succederebbe se si spostassero di qualche chilometro e bruciassero i quartieri dei bianchi? A Los Angeles nel 1992 i bianchi guardavano da lontano i fuochi. Le garantisco che tanti bianchi progressisti in cantina tengono una mitraglia, un AR-15 con qualche caricatore. Non si sa mai. È un tema che mi angoscia: ci sto scrivendo una serie tv sulla quale non posso anticipare nulla, ma il tema è quello. Neri contro bianchi e viceversa. E i poliziotti neri in caso di guerra da che parte starebbero? ».
Come si può evitare?
«Con un amico afroamericano che di mestiere fa l’oncologo l’altro giorno stavo parlando di uno dei tanti casi di neri disarmati fermati dalla polizia per un banale controllo stradale che finiscono ammazzati senza motivo. Il mio amico mi ha detto solo una cosa: “Greg, per te io sono un oncologo, ma appena tolgo il camice, esco dall’ospedale e salgo in auto torno a essere soltanto un negro di m…”. Vede, è la ferita americana che continua a sanguinare: l’eredità dello schiavismo con la quale ci rifiutiamo di fare i conti».
Il suo personaggio ricorrente, Penn Cage, è un procuratore distrettuale diventato scrittore e sindaco della sua Natchez, Mississippi, che dal 1999 la accompagna («L’albero delle ossa» è il secondo volume della trilogia aperta dall’«Affare Cage»).
«È il mio alter ego, Penn sono io, senza dubbio, non è semplicemente un personaggio incorporeo fatto di linguaggio. Divido con lui le mie idee, i sentimenti. Cage si confronta quotidianamente con quell’eredità del razzismo: nei miei libri metto tanta realtà, il crimine, i seguaci della supremazia bianca. Scrivendo di notte — facevo il musicista e tuttora suono, da ragazzo credevo che sarebbe stata la mia professione da adulto e da allora sono diventato una creatura notturna — mi emoziono. Mi capita di piangere, mentre scrivo. E dover continuare a scrivere di razzismo, vedere sempre gli stessi problemi, è scoraggiante. Vedere Trump con buone chance di diventare presidente poi, non ne parliamo... ».
Parliamone invece: che effetto le ha fatto vedere Trump ricevere l’endorsement del Ku Klux Klan, e non rifiutarlo?
«Per fortuna il Ku Klux Klan, pur nell’ideologia disgustosa che continua a caratterizzarlo, non è più la minaccia fisica, terroristica, che ha rappresentato fino ai primi anni Sessanta. Ma quell’ endorsement è significativo di una cosa che purtroppo a noi americani non risulta chiara e invece a voi europei, specialmente per voi italiani, è evidente come la luce del sole: la campagna di Trump porta in sé il Dna del fascismo. Va a sfruculiare l’alienazione di tanti bianchi ai quali l’America ha voltato le spalle, indicando un nemico da cacciare se non addirittura da eliminare. Qui i media hanno trovato delle perifrasi come “destra alternativa”, possono chiamarlo come gli pare, il fascismo è fascismo».
Di questa campagna elettorale cosa l’ha colpita di più?
«Oh, tante di quelle cose, e nessuna positivamente... diciamo però che l’insistenza con cui Trump per anni ha fomentato l’insidiosa bugia su Obama nato in Africa (per poi cambiare idea) è stupefacente. Perché proprio Obama? Bill Clinton, Dio sa se non fosse odiato dalla destra, ma nessuno ha mai detto che fosse nato all’estero e dunque illegittimo come presidente. Di Hillary dicono qualunque cosa, ma non che sia straniera».
Da sudista che ha sempre vissuto in Mississippi (anche se è nato in Germania) trova differenze, nel rapporto dei bianchi con gli afroamericani, tra Nord e Sud?
«Qui il razzismo è sempre stato, purtroppo, presente senza filtri: la schiavitù prima, le leggi sulla segregazione razziale poi. Ma proprio per questo un problema insidioso che hanno al Nord noi non l’abbiamo mai avuto: i bianchi ipocriti che pensano una cosa e ne dicono un’altra. Qui tutti i bianchi, dal 1964 in poi, con la piena uguaglianza garantita dalla legge, hanno dovuto farsene una ragione: basta scuole per bianchi, ristoranti per bianchi, piscine per bianchi, posti sul bus riservati ai bianchi. Basta. Il Sud è cresciuto: sotto costrizione giuridica, certo, ma è cresciuto. Molti leader neri si sentivano, forse si sentono tuttora, più a loro agio qui: se un bianco è razzista te lo fa capire, non ti prende per i fondelli, e gli altri se ne sono fatti una ragione, la vita continua. E comunque qui la convivenza tra razze è sempre stata realtà, nel Midwest e nell’America profonda gli afroamericani arrivarono più tardi e c’è ancora chi preferirebbe che se ne andassero, come i messicani. Qui ci sono sempre stati neri, sono arrivati ancora prima di tantissimi bianchi».
Con la differenza ovvia del modo in cui ci sono arrivati, in America...
«Esattamente: la questione vera sta tutta qui. I bianchi sono saliti su una nave spinti dal bisogno ma sono venuti qui per scelta. Gli afroamericani, i loro progenitori, ci sono arrivati in catene. Un crimine. Come fu un crimine quello perpetrato ai danni dei nativi americani. Finché non parleremo di questo tema con la stessa franchezza con la quale la Germania ha fatto i conti con l’eredità dell’Olocausto, non potremo fare passi avanti. Una componente fondante del mito americano è l’idea che qui si parte tutti dallo stesso punto e poi vince il migliore. No: noi bianchi siamo partiti dalla terza base, molto più vicini al traguardo. I neri sono partiti, e restano, molto più indietro».