Corriere La Lettura 23.10.16
La vera identità della Francia sta nei dubbi sulla sua identità
di Stefano Montefiori
Raphaël
Glucksmann vive attualmente in Francia un momento di grazia: il suo
libro Notre France. Dire et aimer ce que nous sommes (Allary), storia
dimenticata dalla Francia umanista e cosmopolita, è in testa alle
vendite e lui è conteso da radio e tv in prima serata. Il che è una
notizia, perché quegli spazi di solito sono occupati dagli intellettuali
neo-reazionari. Da Eric Zemmour a Alain Finkielkraut, pur con qualità e
argomenti molto diversi, le voci dominanti sono quelle che rimpiangono
una presunta età d’oro della Francia, un mitico «prima» in cui le cose
andavano meglio perché la sovranità del Paese, l’autorità degli
insegnanti e l’omogeneità della nazione erano rispettate.
Glucksmann,
36 anni, figlio del filosofo André scomparso il 10 novembre 2015,
racconta invece di una Francia che non è mai stata pura come la
vorrebbero i suoi cantori nazionalisti, un popolo «che non sarà mai
d’accordo su chi siamo», e che proprio per questo è da sempre aperto
all’Europa e al mondo.
In un dibattito, pochi giorni fa, il
premier Manuel Valls e il presidente della Commissione Jean-Claude
Juncker hanno convenuto che bisogna smetterla di parlare di Stati Uniti
d’Europa e di federalismo, perché le opinioni pubbliche non vogliono
saperne.
«Mi sembra un errore fondamentale. Gli antieuropeisti
offrono l’orizzonte del ritorno alla nazione sovrana, una visione
coerente capace di entusiasmare qualcuno, e noi europeisti neghiamo a
noi stessi il diritto di mostrare il cammino. Impossibile fare l’Europa,
sia pure a tappe, se non sappiamo dove andiamo».
Perché questo atteggiamento rinunciatario?
«I
nostri leader partono dalla constatazione che l’Europa in questo
momento non è popolare. Ma è ovvio, perché nessuno ha più il coraggio di
difenderla davvero. Tutti sono paralizzati dai sondaggi, tranne Marine
Le Pen o Nigel Farage: loro sanno quel che vogliono».
Come è nato il suo libro?
«Dalla
constatazione che la battaglia delle idee la stanno vincendo i
reazionari, perché i progressisti al massimo provano a fare fact
checking del discorso degli avversari, senza opporne uno autonomo. Così
la sconfitta è assicurata perché, in alternativa a una visione che io
considero sbagliata ma coerente, le élite non sanno proporre nulla».
Lei ci prova.
«Cerco
di mostrare che una Francia aperta, europeista, che difende i diritti
dell’uomo e non considera il resto del mondo come una minaccia, fa parte
del racconto nazionale. L’Unione europea è una chance nella storia
francese, la globalizzazione è nata anche in Francia, accogliere
ventimila migranti non è la fine della nostra identità, ma anzi un modo
per rivitalizzarla. Partendo da quali fonti possiamo dire questo? Mi
sono immerso nel passato per cercare di fare un discorso francese che
non sia passatista».
E che cos’ha scoperto?
«Che, per
esempio, l’idea di un Paese slegato dal sangue e dall’etnia, ma fondato
invece su un’adesione politica e giuridica risale a ben prima della
Rivoluzione francese e della Repubblica. Il 3 luglio 1315 il re Luigi X
proclama che “il nostro regno è quello dei Franchi”, e “franco”, nel
doppio significato di appartenente a un popolo e di libero, è chiunque
tocchi il suolo della Francia. Poi, se nei secoli la Francia ha avuto un
ruolo nel mondo, è grazie a Voltaire, Cartesio o Rabelais più che a
Versailles e a Luigi XIV. Se siamo mai stati grandi, è grazie a una
cultura che ammette e anzi fa tesoro del turbamento identitario».
Anche per quanto riguarda la lingua francese, totem dei neo-reazionari?
«Dire
corner invece che coup de pied de coin durante una partita di calcio
sarebbe il segno della decadenza e dell’assenza di rispetto per la
cultura del nostro Paese. Eppure la lingua francese è stata imposta con
un’ordinanza del re Francesco I nel 1539, negli anni in cui il più
grande scrittore dell’epoca, Rabelais, prendeva a prestito centinaia di
parole dalle lingue morte, dalle lingue regionali e da quelle dei
vicini. L’inglese dell’epoca era l’italiano, percepito dai puristi come
la lingua più minacciosa perché più influente. Grazie a Rabelais parole
come spadassin o boussole , derivate dall’italiano, sono entrate nella
lingua francese. Non sappiamo esattamente che cosa siamo e non lo
abbiamo mai saputo. Meglio così. Vuol dire che possiamo essere tutto».