domenica 16 ottobre 2016

Corriere La Lettura 16.10.16
Si dice rimpianto ma è libertà di scegliere
Sentimenti Il principe Amleto e il filosofo Kierkegaard sono due esempi, entrambi danesi, di situazioni nelle quali la decisione di seguire una missione comporta il sacrificio dell’amore
di Ilaria Gaspari

C’era una volta un principe, in Danimarca. Anzi, no: i principi erano due. C’erano poi anche due finestre — ma di quelle parleremo dopo. Il primo principe era pallido e pensieroso e portava un colletto a gorgiera. Il secondo era biondo e bello, e anche se non era nato aristocratico sentiva di avere qualcosa di regale.
Tutti e due erano innamorati: il primo, Amleto, amava la figlia di un cortigiano, Ofelia; il secondo, Søren Kierkegaard, doveva sposare una diciassettenne di nome Regine. Tutti e due erano filosofi. Tutti e due sentivano di avere una missione: il primo doveva vendicare il padre e rovesciare il regno di un usurpatore che per accidente era anche suo zio; per il secondo, era una vocazione filosofica che esigeva una dedizione incrollabile e lo avrebbe esposto a critiche feroci. Erano missioni rischiose, e i due lo sapevano; sapevano anche che, per portarle a compimento, sarebbero stati costretti a mettere in pericolo i loro amori. Ponderarono a lungo possibilità e decisioni, soppesarono alternative. Si tormentarono, perché scegliere è difficile soprattutto per chi è malato di riflessione, come scrisse Kierkegaard di Amleto, forse pensando a sé. Tutti e due rinunciarono all’amore.
Lo fecero con una crudeltà quasi insostenibile. Fu un vero sacrificio; un sacrificio segreto, violento e formidabile. Amleto, per tener fuori Ofelia dal suo piano di vendetta, mentre testimoni invisibili li spiano da dietro le tende ha con lei un colloquio che fa accapponare la pelle. Nega di averla mai amata; la deride, la distrugge. Perché lei lo possa detestare, perché possa essere libera, cerca in tutti i modi di rendersi spregevole ai suoi occhi. La sbeffeggia con la crudeltà che solo un amore non ancora finito può consentire. Qualcosa di molto simile fa Kierkegaard. Dopo un anno di fidanzamento con Regine, decide che non potrà mai essere un marito né un padre di famiglia, e neppure un uomo come tutti gli altri; rompe la promessa esattamente come Amleto. Scrive a Regine, una dietro l’altra, lettere che fanno a brandelli i giorni felici, le speranze, la dolcezza — tutto. Parlando per bocca di uno dei suoi tanti pseudonimi, un seduttore sfrontato, diffonde i dettagli della sua crudeltà contro di lei, e offre alla borghesia di Copenaghen l’occasione di molti pettegolezzi indignati. Intanto, nei diari, annota quanto gli è crudele umiliarsi e ferirla così.
I due principi compresero che per poter essere buoni bisogna saper essere crudeli, qualche volta. Amleto dice la frase tremenda: I must be cruel only to be kind . Non che l’epilogo dei loro amori sia poi stato felice: fu tragico come tragica era stata la scelta. Tutti e due, però, presero su di sé il disdoro della crudeltà invece di trasformare in un’arma di ricatto il peso della rinuncia che ogni scelta porta con sé: perché una possibilità si avveri, bisogna sacrificarne un’altra.
È uno di quei paradossi morali di cui talvolta si appropria il senso comune rendendoli placidamente accettabili: come proverbi. Meglio un rimorso che un rimpianto , si dice; e qualche volta, addirittura, involontariamente evocando un incubo senza fine: meglio vivere di rimorsi che di rimpianti . È una di quelle frasi che cercano — unica replica possibile — un silenzioso cenno di assenso; al massimo, un sospiro. Ma se non fosse vera? Il rimorso, per cominciare, non esclude affatto il rimpianto. Ed è sbagliato pensare che il rimpianto nasca dall’inazione; nasce, semmai, dalla convinzione di non aver agito — ma anche non scegliere è una scelta. Soltanto, è una scelta dolorosa e contraddittoria, perché sottintende un’abiura alla libertà; non per questo, però, è priva di conseguenze. Apre certe possibilità, altre le chiude: come finestre. Qualche volta, scegliendo di non scegliere, ci si trova all’improvviso di fronte a una finestra chiusa; e non è facile confessare a se stessi che tutto quel temporeggiare era solo attesa del momento in cui, finalmente, sarebbe stato troppo tardi.
Prima di essere un folletto eternamente adolescente, racconta J. M. Barrie in Peter Pan nei giardini di Kensington , Peter Pan è stato un bebè, volato via da una casa di Londra per finire in una sorta di limbo. Quando il suo struggimento di tornare dalla mamma viene esaudito, sente che con una sola parola potrà farsi riconoscere da quell’unica donna che conosce e che piange sola su una culla vuota, vicino alla finestra aperta. Ma lei dorme; allora Peter sceglie di non svegliarla, e promette a se stesso di tornare. Lascia passare il tempo. Quando finalmente torna, la finestra è chiusa; la madre culla un altro piccolino. La scelta di non scegliere, di procrastinare il ritorno, proietta sulle sbarre di una finestra l’ombra del più vertiginoso dei rimpianti.
Davanti a un’altra finestra — aperta, questa — siede una ragazza, in un racconto di Gente di Dublino di James Joyce. È quasi sera. L’avvolge la mestizia polverosa di tendine che velano la vista sul viale; sale dalla strada un suono di organetto. È un motivo conosciuto, si moltiplica nell’eco di un ricordo. È lei, ora, che deve tenere insieme la famiglia: l’ha promesso alla madre, proprio come Amleto ha promesso al fantasma del padre di vendicarlo. Ma lo slancio di devozione filiale si trasforma in una visione d’orrore. Eveline vede scorrere la vita della madre: giorni immeschiniti dai sacrifici per il bene della famiglia, inutili come monete fuori corso, uno uguale all’altro, fino alla follia che li ha conclusi. Deve scappare, vuole scappare; è tutto pronto per la fuga con il suo innamorato. Ma al momento di salire sulla nave, come una Creusa spaesata su un imbarcadero irlandese, esita. Rimane immobile, travolta dal vocio della folla; e senza una parola affida all’inerzia la sua decisione. Il fidanzato, in tasca i biglietti per una nave su cui lei non salirà, è già oltre i cancelli; lei lo guarda, e nei suoi occhi non c’è amore, non c’è odio, nemmeno la pietà di un addio. Nemmeno la ferocia dei principi danesi che, trovandosi di fronte a un vero dilemma, hanno guardato nell’abisso di possibilità che si spalanca davanti a chi sceglie. Poi, hanno scelto; e fino al limite dell’abiezione hanno affrontato le conseguenze dello scegliere. Per rendere reale una possibilità, ne hanno cancellata un’altra, confinandola nel limbo dei rimpianti: l’hanno fatto con una crudeltà che merita di essere ripagata col rimorso. Perché non si può scegliere senza macchiarsi. Non ci sono scelte senza conseguenze, senza finestre che si chiudono, senza navi che salpano comunque.
Il rimpianto annebbia lo sguardo sul passato ed è un modo — a volte furbo, altre solo stupido — per nascondere il maggiore dei privilegi, che è anche il più grande dei problemi: la libertà di scegliere. Ci convinciamo di non avere scelto, di non aver avuto scelta; ci condanniamo, così, a un placido risentimento da cui non si può tornare indietro. È solo un modo per ricomprarsi un inutile surrogato di innocenza.