Corriere La Lettura 16.10.16
Evoluzione. Resta un giallo la comparsa del linguaggio
Chomsky non rifiuta più il neodarwinismo: una buona notizia
di Telmo Pievani
Un
abisso separa Homo sapiens da tutti gli altri animali: il linguaggio.
In quanto abisso, la sua evoluzione resta un mistero, anzi un giallo. In
Perché solo noi (Bollati Boringhieri) due autorevoli linguisti del Mit
di Boston, Robert Berwick e Noam Chomsky, provano a cercare il colpevole
e pensano di averlo finalmente trovato. Innanzitutto chiariscono che
cosa si è evoluto, cioè il nocciolo della facoltà linguistica umana
espressa nei suoi minimi termini. Noi parliamo grazie a principi
computazionali semplici e ottimali. L’organo del linguaggio è un
processo cerebrale basato su un minimo di regole trasformazionali,
uniformi e geneticamente fissate in tutti gli esseri umani moderni,
indipendentemente dalla lingua specifica che poi istintivamente
impariamo da piccoli. Questa grammatica generativa trova il suo fulcro
nella struttura gerarchica della sintassi, che ricorsivamente ci
permette di esprimere combinazioni potenzialmente infinite di frasi.
Va
da sé che, una volta definita la facoltà del linguaggio in questi
termini minimalisti e computazionali, come una macchina interna
perfetta, una capacità del genere ce l’abbiamo solo noi: nessuna
speranza di avvicinamento a questo modello sintattico gerarchico per gli
uccelli canori, i cetacei, i primati. E nemmeno per i cugini stretti
neanderthaliani. Tutto il resto, cioè l’esternalizzazione del
linguaggio, è secondario. La relazione col mondo esterno, attraverso
vocalizzazioni o segni, è condivisa con altri animali in vario grado, ma
non è decisiva, perché il linguaggio non si è evoluto per la
comunicazione, secondo Berwick e Chomsky. Ciascuna delle innumerevoli
lingue di cui abbiamo traccia scritta negli ultimi 5.000 anni è come una
stampante che trascrive in modo ogni volta diverso il lavoro dello
stesso computer: ciò che conta è il processore interno, che è
universale.
Ma come si è evoluta la capacità innovativa di
assemblare gerarchicamente le strutture sintattiche? Chomsky rinuncia
alla vecchia idea secondo cui il linguaggio sarebbe troppo complesso per
essersi evoluto gradualmente come pensava Darwin. Non rifiuta più in
blocco il neodarwinismo, e questa è una buona notizia per riaprire un
dialogo tra evoluzionisti e linguisti (chomskiani). La nuova ipotesi è
che il linguaggio si sia evoluto come effetto casuale propagatosi in un
piccolo gruppo, come una mutazione innovativa emersa per deriva genetica
più che per selezione naturale. Insomma, una combinazione di
circostanze rare e fortunate.
Più precisamente lo scenario è
quello di un leggero e rapido ricablaggio neurale (si suppone la
chiusura ad anello di un fascio di fibre tra aree ventrale e dorsale),
cioè un bricolage evolutivo a partire da circuiti corticali già
esistenti, innescatosi a partire da una piccola mutazione genetica
accaduta intorno a 80 mila anni fa in un ristretto gruppo umano
africano, di cui siamo tutti discendenti. Un piccolo cambiamento
biologico con grandi effetti mentali. Così nacque secondo i due autori
la capacità generativa ricorsiva potenzialmente infinita del linguaggio
umano, che portò Homo sapiens a uscire dall’Africa e a dominare il
mondo, estinguendo le altre forme umane come Neanderthal e Denisova, che
non avrebbero avuto questa riorganizzazione cerebrale. Il vantaggio non
fu quello di comunicare meglio, ma di pensare meglio, attraverso un
collante cognitivo interno che integrò in modo nuovo gli altri sistemi
percettivi e cognitivi. Il linguaggio quindi si sarebbe evoluto per il
pensiero, permettendoci combinazioni infinite di simboli e la creazione
mentale di mondi possibili. Solo successivamente si diversificarono le
lingue, come espressioni contingenti di questa capacità.
La
congettura è suggestiva e fa leva su indizi interessanti, anche se ve
sono altrettanti che sembrano smentirla: per esempio i segni crescenti
di intelligenza simbolica in Neanderthal e forse anche in specie più
antiche. L’ipotesi stessa di Berwick e Chomsky prevede in molti passaggi
la selezione naturale e non è vero che la biologia moderna «si è
allontanata dall’originaria concezione darwiniana dell’evoluzione come
cambiamento adattativo risultante dalla selezione tra individui». Il
problema maggiore di questa impostazione sta nel presupporre ancora che
la teoria evoluzionistica odierna implichi uno stretto gradualismo
funzionalista, con l’obbligo di ipotesi che prevedano successioni di
modificazioni lievi e numerose, su tempi lunghissimi. Ma quello è solo
il darwinismo stereotipato difeso da alcuni divulgatori come Richard
Dawkins e Steven Pinker, che è sbagliato identificare come esponenti
della «biologia mainstream ». L’evoluzione è un gioco complesso di
relazioni ecologiche, mentre nel libro non si fa alcun cenno al contesto
reale in cui tutta questa bellissima storia sarebbe avvenuta. Il
giallo, dunque, continua.