Corriere 9.10.16
Cesare Romiti: governo un po’ deludente
Dai 5 Stelle scossa positiva
intervista di Aldo Cazzullo
Roma
con Villa Borghese e il Cupolone è bellissima, vista dalla casa di
Cesare Romiti: 93 anni, per oltre 20 alla testa della Fiat; la lotta
alle Br, la marcia dei 40 mila, la rivincita del capitalismo. Ma sono
altri i pensieri che gli tornano in mente. «Io durante la guerra la fame
l’ho conosciuta. Mio padre era morto nel ’41, mia madre doveva far
studiare tre figli. Un giorno arrivò la voce che in stazione c’era un
treno abbandonato carico di farina. Corsi più veloce che potei, da san
Giovanni alla Tiburtina. Era vero. La farina che portai a casa fu
accolta come manna. Per vivere ho fatto ogni sorta di lavoro, anche i
più umili. Ma non ne voglio parlare».
Ne parli invece, dottor Romiti.
«No».
Ce ne dica almeno uno, di quei lavori.
«Stavo già per laurearmi, e dovetti copiare a mano un’infinità di fogli».
Non c’erano le fotocopiatrici.
«La fotocopiatrice ero io».
Che ricordo ha del dopoguerra?
«Un’Italia
dura e viva. Una Roma piena di umanità: ero amico di Lella Fabrizi, la
sorella di Aldo. Non ci rendevamo conto di vivere un momento
eccezionale. Da brividi. Avevamo ancora negli occhi la fuga dei
tedeschi, l’arrivo degli americani. Tutto appariva possibile. Sembrava
che l’Italia potesse darti qualsiasi cosa le chiedessi».
E ora?
«Ora
l’Italia è da ricostruire. Come dopo la guerra. Sono molto angosciato
per il mio Paese, in particolare per il debito pubblico e la
disoccupazione. Manca il lavoro, quindi manca tutto: prospettive,
dignità, fiducia. Fortunati i centomila che sono potuti andare
all’estero».
Il Jobs act non funziona?
«Basta con
quell’espressione. È una legge italiana; diamole un nome italiano.
Chiamiamola riforma del lavoro. Il governo ha avuto un approccio tutto
politico; ma è come comprare una bellissima cornice e non metterci
dentro il quadro. Tu puoi fare la legge migliore del mondo, e ho qualche
dubbio che questa lo sia, però non sarà una legge a creare lavoro. La
legge può creare le condizioni; ma poi servono investimenti, pubblici e
privati».
Con quali soldi? Altre tasse?
«No. La
ricostruzione deve partire dal basso. Dai territori, dai paesi, dalla
provincia. Dobbiamo ricostruire l’Italia pezzo a pezzo. Se avessi
vent’anni, partirei per Amatrice. Ogni comunità si dia da fare. Le
scuole cadono a pezzi, i ragazzi devono portarsi i gessetti da casa?
Allora coinvolgiamo le famiglie. Se chiedi agli italiani uno sforzo per
lo Stato, si chiamano fuori. Ma se chiedi uno sforzo per il loro
ospedale, il loro parco, la loro strada, allora rispondono. Non è
possibile che alla prima pioggia i fiumi esondino, la terra frani.
Ripartiamo da lì: non opere straordinarie; manutenzione del territorio.
Così induci la gente a investire i risparmi, paghi salari, fai ripartire
la domanda interna».
E il governo cosa deve fare?
«Dare una
mano, ad esempio sospendendo le imposte. Serve uno scossone. L’Italia
umiliata dal fascismo e distrutta dalla guerra ebbe il piano Marshall.
Ma l’America di oggi non è quella di Roosevelt e Truman; e gli scambi
internazionali sono in calo. Dobbiamo trovare la forza del riscatto
dentro noi stessi. Mettiamo al lavoro i giovani, i disoccupati, i
cassintegrati. Facciamo in tutta Italia quel che hanno fatto alle Cinque
Terre, ricostruendo la via dell’amore».
Con il tempo diventa romantico anche un duro come lei.
«La
vita mi ha costretto a esserlo. La Fiat stava morendo. Sparavano a un
caposquadra ogni settimana. Bisognava mettere i violenti fuori dalla
fabbrica, tagliare il personale, chiamare i torinesi perbene a salvare
l’azienda. E i torinesi risposero. Se non l’avessero fatto, oggi la Fiat
non ci sarebbe, come non ci sono l’Olivetti e la Montedison. In
circostanze eccezionali, gli italiani rispondono».
Marchionne l’ha delusa?
«Non
parlo della Fiat. Non è più un’azienda italiana. Sono stato alla
presentazione del libro di Tardelli: abbiamo rievocato un mondo
scomparso».
Lei non era romanista?
«Ma accompagnavo
volentieri l’Avvocato agli allenamenti a Villar Perosa. Una volta
avvertirono Trapattoni che un calciatore si era fatto male e stava
piangendo. Il Trap si infuriò: “Che vergogna! Un giocatore della Juve
non piange!”».
E Renzi, l’ha delusa?
«Un po’ sì. Poteva fare meglio. Si è scelto una squadra non all’altezza».
Il governo non le piace?
«A
parte qualche eccezione, il livello è insufficiente. E poi nello staff
ci sono troppi fiorentini. Avere un giovane di 39 anni a Palazzo Chigi
mi pareva una buona notizia, mi piaceva il suo impegno a visitare ogni
settimana una scuola; poi però non l’ha mantenuto. Si dà da fare, se ora
accendessimo la tv probabilmente vedremmo Renzi; ma da solo può
concludere poco. E poi non doveva dividere il Paese, drammatizzare il
referendum. Certo, la responsabilità è anche dei suoi avversari.
Restiamo la terra dei guelfi e dei ghibellini. Ma neppure nel 1948 ci
siamo lacerati così».
Sta dicendo che questa campagna è più dura di quella che contrappose democristiani e comunisti?
«De
Gasperi e Togliatti, al di là di qualche eccesso verbale, si
rispettavano. Avevano scritto insieme la Costituzione. Oggi un
referendum sulla riforma della Costituzione viene presentato come il
giudizio universale, o se preferisce un derby calcistico. Sento insulti e
toni che nel ’48 non si sentivano. Sono tutti ossessionati, prescindono
dai contenuti. Invece dobbiamo restare uniti».
Lei come voterà al referendum?
«Glielo dirò quando avrò deciso».
E non ha ancora deciso?
«Quasi».
Chi ha vinto tra Renzi e Zagrebelsky?
«Zagrebelsky
diceva le cose giuste. È uno di contenuto, anche se un po’ noioso. Al
pubblico sarà piaciuto di più Renzi, che è bravo a comunicare, a
piazzare la battuta».
I Cinque Stelle come le sembrano?
«Una
forza di cambiamento, di movimento. Eravamo fermi, ci hanno dato una
scossa. Vedo aspetti positivi. Infatti, anche se stanno facendo un sacco
di errori, non perdono voti; perché dietro hanno la rabbia della
gente».
Quando parla di errori pensa alla Raggi?
«La Raggi
non concretizza. Mi pare una donna un po’ fragile. Sapeva che avrebbe
vinto; si sarebbe dovuta preparare una squadra. Ora dice di aver pulito
il centro di Roma in due giorni; ma le periferie? Il problema non è la
sua inesperienza; può ancora imparare. Mi auguro che abbia successo:
Roma è la mia città, ha bisogno di rinnovamento».
Lei ha avuto successo come manager, non come imprenditore. Dove ha sbagliato?
«Come
capo azienda non guardavo in faccia a nessuno. Come imprenditore ho
commesso errori di ingenuità. Avrei dovuto essere più duro. Lo sono
stato quando i denari non erano miei; quando erano miei non ho saputo
esserlo. Ma rivendico una cosa: la fondazione Italia-Cina, creata quando
tutti mi sparavano contro».
Perché ?
«Ricordo un convegno a
Lumezzane con Mario Monti: mi dicevano che a causa mia i cinesi
avrebbero copiato i loro prodotti. Ora i piccoli imprenditori bresciani
esportano in Cina».
Berlusconi è finito?
«Sì. I moderati hanno bisogno di un nuovo punto di riferimento».
Parisi?
«Berlusconi l’ha prima esaltato, poi ridimensionato. Personalmente lo trovo interessante».
Salvini come lo trova?
«Non
so quanta gente possa portarsi dietro. Invece è brava Giorgia Meloni.
Le ho parlato l’altro giorno, in sottofondo si sentiva la sua bambina
che piangeva».
I moderati potrebbero seguire la Meloni?
«Perché no? Ora che è diventata mamma, mi sembra più moderata pure lei».