Corriere 9.10.16
Il populismo è già in crisi ma ha contagiato i vecchi partiti
di Federico Fubini
«Graecia
capta ferum victorem cepit » scriveva Orazio della conquista di Roma
sull’Ellade. La Grecia, conquistata, conquistò il feroce vincitore. I
romani furono dominati dalla cultura greca anche quando il potere era
nelle loro mani. A venti secoli di distanza è il caso di chiedersi se
Orazio non continui ad avere ragione oggi, fra protagonisti meno nobili:
i leader dei partiti tradizionali e quelli dei movimenti antisistema
che hanno trasformato la politica negli ultimi anni. Anche quando questi
ultimi sono perdenti o lontani dal potere, stanno conquistando
l’establishment con le loro attitudini e le loro idee.
L’ ultimo
sintomo è emerso dalla conferenza del Partito conservatore britannico
pochi giorni fa. Nel suo discorso ai delegati, Theresa May ha riassunto
il cambio di stagione in una formula: «Se credete di essere cittadini
del mondo, non siete cittadini di nessun posto. Non capite neanche cosa
significhi la parola cittadinanza». A pronunciare queste parole era la
premier del Paese che ha beneficiato forse di più di qualunque altro in
Europa del cosmopolitismo e della caduta dei muri degli ultimi decenni.
Da Margareth Thatcher, a Tony Blair, a David Cameron, i suoi
predecessori laburisti o conservatori promettevano ai britannici che
l’apertura al mondo avrebbe reso tutti più ricchi. May invece parla di
patria e di confini, come l’ultranazionalista Nigel Farage nella sua
campagna per portare la Gran Bretagna fuori dall’Unione Europea.
Oggi
Farage è un leader in pensione, ricorda un po’ Umberto Bossi. Il suo
partito è giù nei sondaggi e in preda al caos. Spetta a una premier
compassato e prevedibile come May guidare il suo Paese nel divorzio dal
resto d’Europa, e forse per questo lei stessa semina altri indizi del
fatto che i tempi stanno cambiando. May è la leader del partito europeo
da sempre più favorevole all’apertura dei mercati, eppure oggi parla di
intervento pubblico e di «settori strategici» dell’industria nazionale
come una no global francese. È l’erede della tradizione thatcheriana
nutrita di monetarismo e separazione dei poteri, ma getta ombre
sull’indipendenza della Bank of England come coloro che lei stessa
definiva «populisti». Ha questo da dire dei liberal di tutte le aree
politiche: «Trovano il patriottismo di cattivo gusto».
Si può
approvare o restare spiazzati, è impossibile però non vedere che Theresa
May non si muove da sola. Ovunque in Europa e in Occidente gli eredi
dei partiti tradizionali stanno adeguando la propria retorica e le
decisioni di governo alla nuova aria del tempo. Nessuno di loro intende
lasciare un voto più del necessario agli avversari situati ai confini
estremi della politica. In Francia, Nicolas Sarkozy cerca di coprire per
intero il terreno della destra radicale del Front National di Marin Le
Pen. Nel ricandidarsi all’Eliseo, Sarkozy ha proposto misure contro il
terrorismo islamico che fanno apparire Guantànamo un’accademia dello
Stato di diritto: centri di «detenzione preventiva» per qualunque
francese che dia luogo a «sospetti» per i siti in Rete che apre da
proprio computer di casa o per il modo in cui si comporta nella sua vita
quotidiana.
Neanche la Germania della grande coalizione fra
democristiani e socialdemocratici sembra al riparo da questo vento
nuovo. I nazionalisti anti immigrati di Alternative für Deutschland
minacciano per la prima volta di erodere consenso da destra al partito
della cancelliera Angela Merkel, ed è per questo che il governo ha preso
proprio questa settimana una decisione che sarebbe stata impensabile
anche solo pochi anni fa: i cittadini di altri Paesi europei dovranno
vivere in Germania per almeno cinque anni, prima di poter ricevere
assegni di disoccupazione se restano senza lavoro. In precedenza bastava
aver lavorato nella Repubblica Federale sei mesi. Una misura del genere
rischia adesso di danneggiare migliaia di italiani che hanno lavorato e
pagato le tasse per anni in Germania. Ma, ancora una volta, l’ottimismo
e lo spirito di apertura dei due decenni di prima della Grande
Recessione sembrano ormai un ricordo distante. Lo sono anche negli Stati
Uniti. In campagna presidenziale Hillary Clinton ha dovuto promettere
che bloccherà gli accordi commerciali con i Paesi del Pacifico che lei
stessa aveva negoziato come segretario di Stato pochi anni fa. Dalla
Casa Bianca degli Anni 90 suo marito Bill Clinton sosteneva che il
libero scambio era «hundred to nothing», solo vantaggi e zero svantaggi;
Hillary invece deve tenere testa alla retorica protezionista di Donald
Trump.
Neanche l’Italia è immune, naturalmente. Le tirate di
Matteo Renzi contro «i burocrati di Bruxelles» non sono difficili da
capire in un Paese in cui la prima forza nei sondaggi — M5S — propone un
referendum sull’euro. Ma anche chi è a disagio di fronte al
nazionalismo e al protezionismo dei leader occidentali di oggi deve
riconoscere una realtà: Thatcher e Tony Blair si sbagliavano, la
globalizzazione e l’apertura delle frontiere non hanno reso tutti più
ricchi e sicuri di sé. Hanno creato anche dei perdenti. Perché la
società aperta si salvi, dovrà beneficiarne anche chi non ci è riuscito
fin qui