Corriere 9.10.16
Quanta paura fa la trasparenza ai potenti con la coda di paglia
Spesso in Italia si usa il pretesto della privacy per negare informazioni ai cittadini
di Gian Antonio Stella
Tryckfrihetsförordningen
è impronunciabile? Provate con «l’art. 2, commi da 36-terdecies a
36-duodevicies, del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138,
convertito...». Qual è la differenza? Chi parla lo svedese la parola
Tryckfrihetsförordningen la capisce benissimo: è il diritto alla libertà
di stampa e alla trasparenza. Chi parla l’italiano davanti ai nostri
codicilli stramazza: quel linguaggio iniziatico è una barriera che
impedisce l’accesso. Come diceva tre secoli fa Ludovico Muratori:
«Quante più parole si adopera in distendere una legge, tanto più scura
essa può diventare».
È passato un quarto di millennio da quando la
Svezia approvò quelle norme che per prime diedero ai cittadini
l’accesso ai documenti riguardanti la vita pubblica. Mancavano tre anni
alla nascita di Napoleone, dieci alla Dichiarazione d’indipendenza
americana, ventitré alla presa della Bastiglia e alla Rivoluzione
francese. Eppure duecentocinquant’anni dopo, come dimostrano Ernesto
Belisario e Guido Romeo in Silenzi di Stato (Chiarelettere), l’Italia
fatica ad adottare alcuni principi di trasparenza consolidati da decenni
in tutti quei Paesi che credono nelle ragioni di John F. Kennedy. E
cioè che «come disse un saggio: “Un errore non diventa madornale finché
non rifiuti di correggerlo”» e che proprio la denuncia degli errori può
aiutare chi comanda a governare meglio. (…)
Ne abbiamo viste di
tutti i colori in questi anni. Perfino dopo il decreto legislativo 33
del 2013 (il «decreto trasparenza» voluto da Mario Monti) che ordina
alle amministrazioni di mettere a disposizione dei cittadini (salvo rare
eccezioni) una quantità senza precedenti di documenti e informazioni in
loro possesso nell’intento di favorire «un controllo diffuso da parte
del cittadino sull’operato delle istituzioni e sull’utilizzo delle
risorse pubbliche». Se «l’occhio del padrone ingrassa il cavallo»,
l’occhio del cittadino può sgrassare il bilancio più obeso. E scorgere
storture, clientelismi, sprechi, privilegi, reati e malversazioni
altrimenti invisibili.
Abbiamo visto la Calabria negli anni del
governatore Giuseppe Scopelliti pubblicare sul Bollettino ufficiale
della Regione decine e decine di delibere di spesa con i nomi degli
oscuri destinatari dei soldi per questo o quell’incarico coperti da
ancora più oscuri omissis . (…) Abbiamo letto, a dimostrazione di come
il problema riguardi tutto il Paese, da Lampedusa a Vipiteno, interviste
come quella del capogruppo regionale dell’Unione per il Trentino,
Giorgio Lunelli, che per giustificare il rifiuto di rendere pubbliche le
ricevute per le quali chiedeva i rimborsi disse: «Io sono per la
massima trasparenza ma dobbiamo stare attenti all’eccesso di
trasparenza, che può mettere in difficoltà chi svolge attività politica.
Se io ho un incontro riservato e vado a pranzo con una persona può
rappresentare un problema dover pubblicare la spesa con il nome della
persona con cui sono andato a pranzo». Stupefacente. È l’esatto motivo
per cui nei Paesi seri è obbligatorio denunciare tutto ma proprio tutto.
Scrive divertita Caterina Soffici in Italia yes Italia no
(Feltrinelli), dove ci mette a confronto con l’Inghilterra: «Perfino
Buckingham Palace è trasparente. La regina pubblica ogni anno un
rapporto di oltre cento pagine con il rendiconto di tutte le spese della
monarchia, comprese le più piccole, come la sostituzione di un vetro o
di un water nella tenuta di Balmoral». (…)
Al di là dell’Atlantico
funziona allo stesso modo. Dice tutto il caso dell’ex segretario al
Tesoro americano Henry Paulson, costretto nel 2009 a dimettersi per aver
fatto delle telefonate (vietatissime perché lì il conflitto di
interessi è una cosa seria) alla Goldman Sachs, l’azienda di cui in
precedenza era stato il numero uno. Vi chiederete: e come fu scoperto?
Sulla base del Freedom of Information Act, la legge sulla libertà
d’informazione, il «New York Times» aveva chiesto l’elenco di tutte le
chiamate fatte dall’ufficio dell’allora potentissimo segretario. Le
aveva esaminate una a una et voilà : smascherato. (…)
Questa è la
trasparenza. Che non può essere concessa a capriccio, un po’ sì e un po’
no, in dosi omeopatiche. O c’è o non c’è. Da noi, invece, i
trinariciuti guardiani della riservatezza sono andati avanti per anni a
invocare la privacy. L’hanno invocata in Sicilia, quando opposizioni e
giornali diedero battaglia per avere la lista dei 397 giovani assunti
senza concorso in certe municipalizzate e società miste palermitane:
«C’è la privacy, quei nomi non li possiamo dare». (…) Il difensore
civico Antonino Tito, invitato a dire la sua, sospirò: «Non ho il potere
di fare questa richiesta». Finché saltò fuori che tra i fortunati
assunti, per pura coincidenza, c’erano anche i suoi figli Giuseppe e
Tania. Hanno invocato la privacy a Tolentino, nelle Marche, dove i
dirigenti della municipalizzata Assm Spa si sono sì rassegnati a mettere
online, come dice la legge, le loro retribuzioni, ma erano convinti che
nessuno se ne sarebbe accorto. Così, quando una rivista locale
distribuita ogni mese in ottomila famiglie, «Mpn» («Multiradio Press
News»), ha osato pubblicare le cifre «per permettere anche a chi non ha
tempo o dimestichezza coi mezzi informatici di leggere i dettagli delle
spese», hanno fatto il finimondo. (…)
Hanno invocato la privacy
nel maggio 2014 in Sardegna per non consegnare ad Anthony Muroni, il
direttore de «L’Unione sarda», che lo chiedeva da settimane, l’elenco
dei consiglieri regionali appena decaduti, ma già in pensione. Elenco
indispensabile dopo la scoperta che la presidente del consiglio uscente
Claudia Lombardo, perso il seggio, era già in pensione a 41 anni con
5100 euro netti al mese pur essendo più giovane di Nicole Kidman o
Cameron Diaz. E l’hanno invocata nelle regioni autonome del Nord. Come
in Friuli-Venezia Giulia, dove la governatrice Debora Serracchiani
sbalordì i partecipanti a un convegno raccontando di avere un
«problemino» coi dirigenti dell’aeroporto di Ronchi dei Legionari: «Ho
chiesto: dato che la Regione è l’unico azionista dell’aeroporto, posso
sapere che stipendi avete? Spiacenti, mi hanno risposto, c’è la
privacy!». (…)
Quanto al Trentino-Alto Adige, le autorità locali
hanno avuto per la trasparenza (non è mai stata data la lista neppure di
chi ha la tessera gratis dell’autostrada del Brennero, totalmente
pubblica) una vera allergia. Ogni volta che scoppiava uno scandalo per
le retribuzioni stratosferiche (si pensi che l’assessore provinciale
alla Sanità sudtirolese, Richard Theiner, nel 2008 prendeva 22.900 euro e
cioè 6600 più di Ursula Schmidt, ministro della Sanità in Germania) o
per i trattamenti pensionistici, si alzavano barricate. Privacy!
Privacy… Per farla corta, a 250 anni dalla prima legge mondiale sulla
trasparenza, migliaia di burocrati italiani, arroccati nei palazzi del
potere centrale e in quelli del potere periferico, sembrano in trincea
con l’elmetto e la baionetta a difendere l’indifendibile: la segretezza
dei dati. Scriveva Max Weber: «Ogni burocrazia si adopera per rafforzare
la superiorità della sua posizione mantenendo segrete le sue
informazioni e le sue intenzioni». Di più: «Lo Stato cerca di sottrarsi
alla visibilità del pubblico, perché questo è il modo migliore per
difendersi dallo scrutinio critico». È passato un secolo. Siamo sempre
inchiodati lì.