Corriere 9.10.16
Cosmogonia di un popolo
Guerre d’integrazione e re come divinità così la cultura maya univa terra e cielo
di Daniele Pompejano
I
Maya rappresentano un universo plurale nel tempo e nello spazio. La
mostra su Il linguaggio della bellezza , ospitata a Verona al Palazzo
della Gran Guardia, offre l’opportunità di leggere la storia maya
concentrata nell’area dei cinque stati della federazione messicana
(Quintana Roo, Yucatán, Campeche, Chiapas e Tabasco) dai quali
provengono i trecento reperti esposti, e concentrata pure nell’arco
temporale del periodo cosiddetto classico tardivo e post-classico. Vale a
dire che si sono scelti i secoli nel corso dei quali il centro di
gravitazione passava dalle Terre Basse (l’attuale Guatemala) verso nord
(il Messico meridionale) e in parte verso sud e sud-est (Honduras ed El
Salvador).
La scelta manifesta, dunque, una sua ragione storica,
ed è sostenuta dalla scelta di reperti che è possibile visionare grazie
all’attività di ricerca e conservazione del prestigioso INAH (l’Istituto
di Antropologia messicano), così come nei numerosi siti sparsi in un
territorio tanto affascinante quanto ancora misterioso per i molti segni
ancora da decifrare. La dispersione di depositi e reperti in un
territorio vasto rivela la forza di una civiltà che dovette ciclicamente
dislocare i propri centri verosimilmente per un sovraccarico di
popolazione sull’ecosistema sino all’incirca la metà del XIII secolo
dell’era cristiana. Fu allora che tensioni militari fra le città più
importanti e poi la penetrazione da nord di popolazioni tolteche e più
tardi azteche ridussero la tradizionale autonomia e il policentrismo che
avevano caratterizzato gli insediamenti maya.
I reperti esposti
riassumono alcuni dei caratteri di questa lunga fase storica, della
transizione verso un complesso di relazioni che andarono vieppiù
riordinandosi verso dei centri maggiori, esterni all’area maya senza che
tuttavia andassero perduti i caratteri salienti delle civiltà
mesoamericane. Per esempio le effigie del grande re e dio Quezalcoátl
rivelano accoglienza di ritualità e credenze esterne che tuttavia (come
fu tipico di quelle civiltà) non furono il prodotto di etnocidi
culturali né di politiche di sterminio.
La guerra era finalizzata
non alla distruzione ma all’integrazione. E l’ampia rete di relazioni
tributarie (alimenti, piume, giade e ossidiane) e di alleanze
matrimoniali fra le «case grandi» del periodo classico (dal terzo al
nono secolo dell’era cristiana) si arricchì di nuove tessiture e
innesti, talora ridenominazioni di divinità e rielaborazioni di culti e
tradizioni antiche.
Discorso e simboli religiosi diffusi
testimoniano come la vita quotidiana fosse intrisa di passaggi e riti
che evocavano l’unità complessa del cosmo. In società rigidamente
gerarchiche le autorità politiche e religiose rappresentavano i tramiti
essenziali fra terra, inframondo e cielo. E questa funzione di
mediazione conferiva legittimità al loro status e al potere
corrispondente che governava l’intreccio fra natura e storia, vita e
morte, uomo e donna, sole e luna. Per quanto la società maya fosse
internamente stratificata, il numero due simbolizza adeguatamente
l’ordine cosmico e fondativo riprodotto per esempio nel mito dei due
gemelli che discendono nell’ inframondo per vendicare la morte del padre
e sconfiggere i signori della morte. Alle funzioni delle élite
corrispondevano, pertanto, segni tangibili, civili e religiosi, che
dovevano risaltarne materialmente e simbolicamente il rango. Il
linguaggio della bellezza, dunque, come anche le deformazioni somatiche
indotte nei rampolli delle élite, i monili e l’abbigliamento in cui
venivano sintetizzati tratti umani e tratti animali, la continuità e
comunione con antenati e divinità dai quali le élite attingevano un’aura
di immortalità. Così si spiegano i sacrifici di sangue mirati a
restituire vita agli antenati/dei e a rinnovare il patto fondativo.