sabato 8 ottobre 2016

Corriere 8.10.16
Quell’altare di Camon fatto di storie
di Sebastiano Grasso

Con la pubblicazione, nel 1978, di Un altare per la madre di Ferdinando Camon (Urbana, Padova, 1935), Livio Garzanti mette fine ad una sorta di ossessione dello scrittore veneto che ha riscritto il testo ben diciannove volte di fila. Carattere forte e decisionista, l’editore sceglie la terza stesura. Il libro ha un grosso successo. Come in altri due precedenti, Camon parla della civiltà contadina destinata inesorabilmente a morire. L’elemento biografico da cui parte — la morte della madre — fa sì che la narrazione acquisti sempre di più il senso d’una coralità in cui si chiede che ogni cosa «smetta di morire».
Poi il padre dello scrittore lavora a un altare fatto con vecchie pentole portate dai vicini di casa da mettere in qualche posto a ricordo della moglie. Nel tentativo di fonderle scoppia un incendio e l’uomo rischia persino di restarci. Alla fine, l’ara verrà accolta nella chiesa del paese per diventare l’altare per la messa.
Un altare vince il premio Strega. Due anni dopo, Gallimard lo traduce in Francia, dedicandolo a Roland Barthes, appena scomparso, e «L’Express» scrive: «Attenzione: capolavoro». Nell’86, per la Rai, Edith Bruck dirige il film con Angela Winkler e Franco Nero.
«Scrivo per vendetta (…). Tuttavia, dentro di me, sento questa vendetta come giusta, santa, gloriosa. Mia madre sapeva scrivere solo il suo nome e cognome. Mio padre, poco di più. Nel paese dove sono nato, i contadini analfabeti firmavano con una croce. Quando ricevevano una lettera dal municipio, dall’esercito, dai carabinieri (nessun altro scriveva ai contadini), si spaventavano e andavano a farsi spiegare la lettera dal prete. Li ho visti passare molte volte, ero un ragazzo. Da allora ho sentito la scrittura come uno “strumento del potere”, e ho sempre sognato di passare dall’altra parte, impossessarmi della scrittura, ma per usarla in favore di coloro che non la conoscevano: per realizzare le loro vendette».
Per gli 80 anni di Camon, alla Fenice di Venezia, qualche settimana addietro, la Fondazione Campiello ha voluto rendergli omaggio con il premio omonimo alla carriera. E Garzanti ha ristampato Un altare per la madre .
Un ritorno, nel tempo, nella campagna («L’etica di Camon sta nell’implacabile assillo della memoria», aveva notato Giulio Nascimbeni sul «Corriere della Sera»), che, in fondo, resta, la continua fonte di ispirazione. In prosa, ma anche in poesia. Ricordate Dal silenzio delle campagne , del 1998? Anche qui torna la figura materna («Mia madre»). Anche qui, Camon riallestisce il palcoscenico in cui si muovono i suoi personaggi, anche se il contesto è cambiato. Anche qui tutto diventa corale; quella coralità che richiama i crescendo wagneriani.
E vengono in mente anche i versi, composti fra il ’56 e il ’60, di un libro di Mario Luzi, dal titolo simile a quello di Camon: Dal fondo delle campagne . La raccolta del poeta toscano appare circa trent’anni prima, da Einaudi. «Questa terra grigia lisciata dal vento nei suoi dossi/ nella sua galoppata verso il mare,/ nella sua ressa d’armento sotto i gioghi/ e i contrafforti dell’interno, vista/ nel capogiro dagli spalti, fila/ luce, fila anni luce misteriosi,/ fila un solo destino in molte guise, / dice: “Guardami, sono la tua stella” / e in quell’attimo punge più profonda/ il cuore la spina della vita./ Questa terra toscana brulla e tersa/ dove corre il pensiero di chi resta/ o cresciuto da lei se ne allontana».
Veneto o Toscana, nei versi di entrambi emerge lo spirituale nell’arte (non di Kandinsky), quello in cui la terra, cercando di annullare la morte, si inventano riti di salvezza.
sgrasso@corriere.it