Corriere 8.10.16
Il cavaliere resistente
Gli errori (deliberati) e il meraviglioso, così Ariosto creò una realtà parallela
di Chiara Fenoglio
Italo
 Calvino (il più ariostesco, insieme a Borges, tra gli autori 
novecenteschi) era solito dire che l’Orlando Furioso contiene tutto il 
mondo e che in questo mondo è inscritto a sua volta un libro che vuol 
essere mondo: nel rispecchiamento e nella rifrazione, come nel labirinto
 per Borges, Calvino fonda il rapporto tra «mondo scritto» e «mondo non 
scritto». La metafora del libro della natura ha peraltro una lunga 
tradizione, dall’idea medievale che il cosmo sia il libro attraverso cui
 Dio ci parla, a quella rinascimentale portata a compimento da Montaigne
 che vi vede lo specchio da scrutare per conoscere se stessi. Un mondo 
che nel capolavoro ariostesco, di cui si celebrano i 500 anni dalla 
prima edizione, si configura nell’immagine della corte estense.
E 
proprio alla corte di Ferrara, al Palazzo dei Diamanti, è in corso la 
mostra Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi? che celebra 
l’immaginario e la visionarietà del poeta ponendo in dialogo la sua 
opera con dipinti, sculture, libri, armi e oggetti rari capaci di 
restituire l’universo culturale e artistico in cui Ariosto si muoveva, 
come avviene con il corno d’avorio dell’XI secolo, in cui è 
tradizionalmente riconosciuto l’olifante suonato da Orlando a 
Roncisvalle.
Si tratta di una mostra policentrica, proprio come il
 Furioso, poema del movimento, della dilatazione e della dispersione, e 
insieme poema della visione e dell’illusione, della trasfigurazione 
onirica della realtà: se per Caldèron de la Barca la vita è sogno, per 
Ariosto il sogno consente di descrivere la realtà proprio in forza della
 sua inconsistenza. Il poema è «finzion d’incanto» che fa apparire 
«rosso il giallo», ma in assenza del quale tuttavia nessuna esperienza 
del mondo sarebbe possibile. Nel Furioso ogni forma, ogni corpo, ogni 
parola emerge «con l’evidenza della cosa reale» ma, come ha osservato 
Vittorio Sereni, sfugge a chi tenti di ghermirla «rivelando la propria 
aerea sostanza».
Il favoloso è lì, solido ed evidente nei nostri 
sogni, ma scompare come un fantasma appena riapriamo gli occhi. Dunque 
in questo breve battito di ciglia, l’immaginario si proietta sulla 
realtà e fornisce una misura al mondo: ogni immagine, come ogni ottava, è
 lo spazio che Ariosto attraversa per organizzare il caos, contenere la 
pura estensione della materia nei confini ordinati del poema, emblema di
 un mondo e di una società ideali.
L’incanto naturalmente è 
fallace, nasconde i «felici errori» che Leopardi addebita ad Ariosto, le
 belle favole, gli «strani pensieri» in cui il poeta si rifugia, e che 
costituiscono dal punto di vista del moderno una regressione nel mito e 
nel meraviglioso: ma sono anche, secondo questo Leopardi, un errore 
liberamente assunto da Ariosto, per proteggerci dai guasti e dai mostri 
della storia. Così nella Minerva che scaccia i Vizi dal giardino delle 
Virtù di Mantegna, ammirata da Ariosto nello studiolo d’Isabella d’Este,
 ritroviamo le stravaganze che Ruggiero incontra nel regno di Armida nel
 canto VI: da Astolfo mutato in mirto, alla «strana torma» di alcuni 
esseri che «dal collo in giù d’uomini han forma, /con viso altri di 
simie, altri di gatti; /stampano alcun’ con piè caprigni l’orma; /alcuni
 son centauri agili et atti; /son gioveni impudenti e vecchi stolti, 
/chi nudi e chi di strane pelli involti». Analogamente, per le 
descrizioni delle battaglie Ariosto attinge al vasto repertorio di 
combattimenti e di cavalieri medievali, di tradizione francese e non 
solo, che dal San Giorgio di Paolo Uccello giungono fino al Gattamelata 
di Giorgione. L’immagine di Angelica è compresa e plasmata a partire da 
due modelli femminili assai diversi: la Venere botticelliana i cui 
capelli si intorcono come i nodi d’amore e la Giuditta guerriera di 
Marco Zoppo.
Ultimo dei romanzi cavallereschi e primo dei romanzi 
moderni (in anticipo di cent’anni su Cervantes, con cui la mostra si 
chiude), il Furioso connette il tempo mitico dei «cavallieri antiqui» 
alle vicende a lui contemporanee, alle guerre tra Francesco I e Carlo V 
per l’egemonia nel nord Italia, ma soprattutto connette il tempo perduto
 del sogno alla realtà.
E lo fa con un linguaggio naturale, una 
discorsività alta capace di giocare con gli «accessori inessenziali del 
linguaggio» già descritti da De Sanctis. Grazie a questo stile, plasmato
 sulle regole di Pietro Bembo, Ariosto crea il «puro e dolce idioma 
nostro, /levato fuor del volgar uso tetro», grazie al quale il Furioso è
 giunto fino a noi, fino alla riproposizione teatrale di 
Sanguineti-Ronconi, alle riletture di Calvino e di Celati.
Il 
poema dell’armonia descritto da Croce è diventato il poema della 
mobilità e dell’intrico, scomposto e ricomposto, come la fortuna 
scompone e ricompone le vicende umane, con infinita varietà del 
possibile: il vero protagonista di questo poema del vagabondaggio, è 
quel teatro del mondo che aveva trovato nella corte rinascimentale la 
sua incarnazione più vitale.
 
