sabato 8 ottobre 2016

Corriere 8.10.16
Legge elettorale: la difficile partita per un accordo
di Francesco Verderami

Da capisaldi del bipolarismo all’italiana, Berlusconi e Prodi sono oggi spettatori poco protagonisti di un referendum che non evoca lo spirito costituente, ma lo scontro tra Repubblica e monarchia.
Il fatto che gli artefici di un ventennio — per motivi diversi — siano marginali nella contesa, rende ancor più evidente che i pilastri su cui fondarono le rispettive leadership non ci sono più. Perciò risulta già in partenza complicato il tentativo che Renzi, da segretario del Pd, si appresta a fare: quello cioè di dar vita a una serie di incontri bilaterali con gli altri partiti, per verificare se ci sia la «volontà politica» di cambiare insieme la legge elettorale, prima di capire come e quando farlo. È quella la cruna dell’ago dalla quale far passare un appeasement nella sfida referendaria.
Ma anche se la «volontà politica» ci fosse, le forze che un tempo trainavano le coalizioni e ne dettavano l’agenda, oggi non sembrano attrezzate per chiudere un eventuale accordo e gestirlo poi nell’iter parlamentare. E non solo perché sono logore e divise al proprio interno, ma anche perché hanno il timore di prestare il fianco agli attacchi del fronte populista, che è pronto ad accusarle al cospetto dell’elettorato, ad additarle come responsabili di un nuovo «inciucio». Per quanto distinti e distanti, con i loro atteggiamenti Berlusconi e Prodi diventano così le cartine di tornasole della crisi.
È incredibile come sia passata quasi del tutto inosservata la decisione del Professore di non volersi esprimere sul referendum, mentre invece è clamoroso il modo in cui l’ha fatto: «Ho ben presente l’impianto della riforma ma nemmeno sotto tortura dirò come la penso». Non facendo sapere la propria posizione, il fondatore dell’Ulivo non solo ha privato — almeno finora — l’elettorato di centrosinistra di un punto di riferimento. Ma soprattutto ha aperto uno spaccato sulla guerra civile che è in corso in quell’area, e nella quale non vuole essere coinvolto.
Il silenzio di Prodi è la rappresentazione plastica delle macerie nel Pd, che da quando Renzi è diventato premier si è diviso su tutto: sulla politica economica, sulla politica giudiziaria, sui temi del lavoro e della scuola, e al dunque sulla legge elettorale e sull’idea di nuova Costituzione. Da separati in casa si apprestano a scontrarsi anche nelle urne il 4 dicembre, e nel partito ormai si parla senza remore di quanto accadrà dopo: o la minoranza democrat batterà Renzi al referendum per poi tentare di riprendersi la «ditta», o «la ditta» dopo il referendum verrà aperta da un’altra parte.
Sull’altro versante, i dirigenti di ciò che resta del centrodestra temono che Berlusconi non si spenderà nella campagna referendaria. È vero, le sue condizioni di salute rappresentano un valido motivo di assenza, ma ci sono anche ragioni politiche che lo spingerebbero a evitare un ritorno imminente sulla scena: perché il Cavaliere dovrebbe spiegare nel merito la posizione assunta sulle riforme, dopo averle sostenute in Parlamento fino al penultimo voto. Non a caso il 40% dell’elettorato di Forza Italia è pronto a votare Sì alle modifiche costituzionali.
Insomma, l’aria che tira nel Pd è la stessa che spira nel partito di Berlusconi, dove l’innesto di Parisi ha provocato la rivolta del gruppo dirigente azzurro, criticato da Gianni Letta per le «smodate reazioni» contro il manager che, «come chiede Silvio, andrebbe invece aiutato sul territorio». Ma il «territorio» di Forza Italia è diventato un deserto. Se ne sono accorti i vertici del partito iniziando a organizzare la Conferenza programmatica di novembre: l’obiettivo di riunire cinquemila amministratori locali sembra un’impresa improba.
Il capogruppo al Senato Romani l’altro giorno si è speso con un test chiamando 34 persone al telefono: peccato che la metà avesse cambiato numero, una parte fosse passata con altre forze politiche e una parte ancora abbia preso tempo perché «impegnata al lavoro». Alla fine solo in 4 hanno assicurato la loro presenza alla convention. E anche la mobilitazione per il No al referendum, decisa da Ghedini, non pare avere al momento miglior sorte: il progetto di girare i comuni d’Italia con 30 Fiat Cinquecento ha un costo di 80 mila euro. I coordinatori regionali — interpellati — si sarebbero però sonoramente opposti alla richiesta di fronteggiare la spesa.
I due partiti continuano ad avere consensi, non c’è dubbio. Ma (anche) i silenzi di Berlusconi e Prodi fanno capire che la forza di un tempo non c’è più.
Francesco Verderami