Corriere 5.10.16
I duelli medici di Galeno
Nell’antica Roma i più famosi luminari si sfidavano a trovare le cure migliori
di Paolo Mieli
La
fortuna di Galeno di Pergamo — che fu, dopo Ippocrate, il più famoso
medico dell’antichità — si deve al fatto che suo padre e suo nonno erano
stati valenti architetti e il suo bisnonno un rinomato geometra.
Questo, assieme agli studi filosofici impostigli dalla famiglia quando
era giovanissimo (14 anni), fecero della sua una delle menti più aperte
del II secolo dopo Cristo. Véronique Boudon-Millot, in Galeno di
Pergamo. Un medico greco a Roma , in libreria in questi giorni per i
tipi della Carocci, offre un prezioso ritratto suo e della sua epoca —
il II secolo, appunto — già magnificamente descritta da Pierre Grimal
nel suo libro Marco Aurelio (Garzanti). Galeno ha lasciato molto di sé,
ventimila pagine in greco, consultabili nell’edizione di riferimento
curata tra il 1821 e il 1833 dal rettore dell’Università di Leipzig
(Lipsia), Karl Gottlob Kühn. Documentazione di una ricchezza che non ha
eguali. Mario Vegetti, però, nell’introduzione ai Nuovi scritti
autobiografici (Carocci) dello stesso Galeno, ha ben spiegato come non
si possa escludere che il medico in quelle migliaia di pagine «abbia
costruito un’autobiografia almeno parzialmente immaginaria». Quel che è
evidente, rileva Boudon-Millot, è — solo per fare un esempio — che fin
da quando sedicenne si dedica alla medicina, Galeno mostra una certa
«reticenza a riconoscere un qualche debito verso i suoi predecessori».
In particolare nei confronti di quelli che non avevano lasciato niente
di scritto. Il suo tirocinio — da Pergamo a Smirne ad Alessandria
passando per Corinto — è straordinario. Lavora molto sui cadaveri,
impara tutto sulle ossa, scava tra le viscere del corpo umano. Una volta
tornato a Pergamo (157), viene nominato, ventottenne, medico dei
gladiatori. Incarico che terrà con grande profitto fino a che di anni ne
avrà 32 (161), allorché si trasferirà a Roma.
Il quadro che
traspare dagli scritti di Galeno sulla medicina a Roma ai tempi di Marco
Aurelio è agghiacciante. I pericoli più grandi ai quali Galeno, in
occasione del suo primo soggiorno romano, si troverà esposto verranno,
secondo Boudon-Millot, da un mondo medico «in preda alla concorrenza più
accanita e alla polemica più aspra». E anche a qualcosa di peggio. La
libertà lasciata a ogni medico di intervenire presso un malato per dare
il proprio parere (anche in presenza di altri colleghi) provoca tra di
loro esplosioni di violenza. E quando il pericolo non viene dagli altri
medici, arriva dalla famiglia in ansia per la vita del proprio
congiunto. Galeno stesso racconta di come i parenti di un giovane, in
preda ad una forte febbre, avessero convocato tutti i medici disponibili
per poi minacciare di farli a pezzi, uno ad uno, se non avessero smesso
immediatamente di discutere tra chi era a favore di una terapia e chi
di un’altra.
Le lotte tra scuole rivali sono in quegli anni molto
aspre. Uno dei pregiudizi più tenaci a Roma è che la medicina sia una
professione anarchica, che si impara a danno dello stesso paziente,
ricorrendo ad un empirismo, nella migliore delle ipotesi, maldestro e,
nella peggiore, crudele. Empirismo per il quale solo la guarigione o la
morte dell’ammalato consentono di esprimere un giudizio circa
l’efficacia del trattamento. Le vie intermedie non sono contemplate. O
lo sono poco.
Fino a quel tempo i rimedi medici consistevano
essenzialmente in un digiuno di tre giorni e nei salassi. Galeno non
disdegna né l’uno né l’altro, anzi in certi casi suggerisce di estrarre
sangue dal paziente «fino a che non perda i sensi». Ma la sua forza è la
grande sperimentazione che ha alle spalle, in virtù della quale ha un
grande vantaggio sugli altri medici. In un’occasione accetta che i
parenti del paziente chiudano i dottori a chiave in una stanza finché
non si saranno messi d’accordo su come guarire l’infermo. I suoi rivali
diagnosticano in astratto, lui sa prevedere l’effetto di ogni decisione e
questo gli conferisce una certa superiorità. Come nel caso del filosofo
peripatetico Eudemo, colpito da una febbre quartana e guarito dal
medico di Pergamo in contrasto con le terapie suggerite dai suoi
colleghi.
Véronique Boudon-Millot nota che Galeno indica la
dissezione (praticata su animali morti) e la vivisezione (fatta su
quelli vivi) con lo stesso termine: «anatomè». Ma poi distingue tra la
dissezione (che fa in privato, assai di frequente, per i suoi studenti) e
le vivisezioni che fa in pubblico, proprio perché hanno «un innegabile
valore teatrale e una dimensione agonistica dichiarata». Le sedute
pubbliche richiedevano un certo numero di animali vivi, di cui bisognava
garantire la sussistenza per tutta la durata dell’operazione, che
poteva prolungarsi per diversi giorni. Soprattutto richiedevano, queste
sperimentazioni, una grande abilità tecnica da parte di colui che le
effettuava e una lunga esperienza acquisita nel corso di precedenti
sedute di anatomia condotte in una cerchia ristretta.
Galeno
raccomandava ai suoi allievi di allenarsi a lungo su animali morti per
acquisire la facilità e soprattutto la velocità di esecuzione necessarie
ad una vivisezione ben riuscita: il minimo errore o una lentezza
eccessiva potevano provocare la morte anticipata dell’animale e
concludere così la «dimostrazione» prima del tempo. Le bestie che
prediligeva per le vivisezioni erano i maiali, i capretti e i cavalli,
in quanto «animali dalla voce potente». Ma non voleva le scimmie, se non
in casi eccezionali. Delle scimmie apprezzava la somiglianza anatomica
con l’uomo, ma si preoccupava di non spaventare il pubblico «con lo
spettacolo a volte difficile da sopportare di un animale così
espressivo»: una volta che dovette «trattare» una scimmia, lo definì uno
«spettacolo orrendo».
Per il resto queste rappresentazioni
mediche prendono la forma di un duello in pubblico. La sua prima volta
(163) è con Alessandro di Damasco, al quale intende dimostrare che «ci
sono un paio di nervi finissimi, simili a capelli, impiantati sui
muscoli della laringe che, se vengono legati o tagliati, lasciano
l’animale privo di voce, non recando danno né alla sua vita né alla sua
attività». Alessandro contrattacca accusandolo di fidarsi eccessivamente
della «testimonianza dei sensi». Ma Galeno riesce a rendere evidente
come l’ispirazione si produca mediante la dilatazione del torace e
l’espirazione attraverso la sua contrazione. Mostra anche i muscoli che
controllano la dilatazione assieme ai nervi che terminano in questi
muscoli e che partono dal midollo spinale. E ancora fa vedere come
l’aria espirata, urtando durante la sua uscita contro le cartilagini
della laringe, produca dei suoni. Per poi dimostrare che, se i muscoli
che muovono le cartilagini vengono danneggiati, ciò ha come effetto la
privazione della voce. Questa rappresentazione su animali vivi suscita
grande impressione nel pubblico sempre più numeroso che ha l’occasione
di assistervi. Lo scandalo provocato da tali dispute, scrive
Boudon-Millot, oltrepasserà la prima cerchia di filosofi e di retori per
giungere alla cerchia dei due imperatori. E, successivamente, agli
imperatori stessi.
I suoi rivali lo accusano di crudeltà. Ma la
Roma «più moderna» è dalla sua parte. Soprattutto quando si batte contro
Asclepiade e Erisistrato e contro la teoria di Lykos, secondo cui
«l’urina è il superfluo della nutrizione dei reni». «Mi sentii
costretto», racconta Galeno, «a far loro vedere che l’urina,
nell’animale ancora vivo, affluisce manifestamente nella vescica
attraverso gli ureteri, ma avevo ben poca speranza di poter così
arrestare il loro vaniloquio». Fra i suoi pazienti, l’astuto Galeno «dà
ampio spazio ai più eminenti che sono i soli di cui», fa notare
Boudon-Millot, «ha pensato bene di conservarci i nomi». I suoi
detrattori gli affibbiano nomignoli spregiativi come «indovino» o
«annunciatore di miracoli». Ma, scrive la storica, contrariamente alle
loro asserzioni, i successi di Galeno non devono nulla alla fatalità,
sono tutti fondati su uno scrupoloso rispetto e su una conoscenza
approfondita delle regole dell’arte medica. Anche il celeberrimo «caso
della moglie di Giusto», ben conosciuto dagli studiosi delle malattie
psichiche.
Non si sa chi fosse questo Giusto, che aveva una
consorte sofferente di insonnia. Galeno intuisce che all’origine
dell’assenza di sonno c’è una pena che ha origini nella mente. Dalle
chiacchiere di una servitrice apprende che la moglie di Giusto durante
la giornata mangia e fa il bagno caldo con regolarità. E inizia a
prenderle il polso in tempi e con modalità regolari. Un giorno si
accorge che quando viene pronunciato il nome di un danzatore, Pilade, i
battiti hanno un’alterazione. Per capire meglio di che si tratti, chiede
a uno dei suoi conoscenti di pronunciare all’improvviso il nome di un
altro danzatore, Morfeo: ma nel polso della paziente non si riscontra
nessuna irregolarità. Quando invece viene ancora nominato Pilade, i
battiti si fanno di nuovo irregolari. L’origine del male è in quella
circostanza da ricondurre a qualcosa di psichico.
Con lo stesso
metodo scopre poi un economo che ha distratto fondi al suo padrone. Ma
ci sono casi anche più complessi. Il medico di Pergamo stabilisce una
relazione tra le irregolarità del polso e malattie che potremmo definire
psicosomatiche. Una teoria già formulata da Erisistrato. Si sviluppano a
questo punto nuovi odi da parte dei colleghi e Galeno, anche per il
fatto che in città dilaga la peste, nel 166 decide di fuggire, di
lasciare Roma e rientrare a Pergamo. Appena due anni dopo, però, cederà
al richiamo imperiale e tornerà indietro, accettando persino di
affrontare la peste ad Aquileia, la città a nord di Trieste, dove i due
imperatori, Marco Aurelio e Lucio Vero, avevano stabilito la loro
residenza invernale. I due sovrani si erano lì trasferiti per meglio
combattere i barbari della Germania, missione che avrebbe impegnato
Marco Aurelio per anni, dal 169 al 175 (Lucio Vero morirà invece di un
colpo apoplettico all’inizio di quello stesso 169, quando era già sulla
via del ritorno a Roma).
L’incontro tra l’imperatore Marco Aurelio
e l’uomo venuto da Pergamo si trasformerà in un solido legame allorché
il secondo riuscirà a convincere il primo ad assumere la «teriaca», un
composto di oltre settanta ingredienti tra cui l’oppio e la carne di
vipera. Un medicinale messo a punto dal re Mitridate, a norma di una
ricetta notevolmente arricchita poi da Andromaco, medico di Nerone.
Marco Aurelio «scopre» la «teriaca» e Galeno — entrato nelle grazie del
sovrano — ha raggiunto la sua meta. Ma vuole tornare a Roma. Riesce a
convincere l’imperatore ad affidargli le cure di suo figlio, Commodo,
affetto da una brutta tonsillite. Ma, non volendo commettere gli stessi
errori del suo primo soggiorno, Galeno decide di passare a Roma il minor
tempo possibile e sceglie di seguire il giovane Commodo nelle sue
molteplici e prolungate villeggiature.
Le volte in cui gli capita
di tornare a Roma, quel medico è una star, non sa resistere al fascino
della propria popolarità e si concede a nuove sperimentazioni in
pubblico. Compie dissezioni addirittura sugli elefanti, in particolare
sulle due narici della proboscide. Nel 180 a Marco Aurelio succede
Commodo, ma, nonostante una relativa intimità, nei dodici anni del suo
regno le cose tra il nuovo imperatore e Galeno non andranno bene. Il
medico però aspetterà la sua morte prima di prenderne le distanze e di
scrivere, trincerandosi per di più dietro il giudizio di terzi, che «in
tutta la sua storia l’umanità ha subito un minor numero di sciagure di
quelle causate da Commodo in pochi anni» (180-192).
I successivi
anni di regno di Settimio Severo (193-211) saranno invece per lui
tranquilli e proficui. Era afflitto però da mali della vecchiaia che lui
curava — con grandi risultati — mangiando lattuga. Fino alla sua
scomparsa avvenuta forse ai tempi di Caracalla, di cui tuttavia Galeno
non menziona mai neanche il nome. Strana morte di un uomo tra i più
pubblici della sua epoca avvenuta in un luogo e in una data di cui
niente sappiamo.