Corriere 5.10.16
Referendum trappola per le élite
di Aldo Cazzullo
Qualsiasi
governo che oggi sottopone la propria linea ai cittadini con un
referendum si sente rispondere di no. Hanno cominciato gli inglesi,
licenziando Cameron e la sua scelta di restare in Europa. Hanno
continuato ungheresi e colombiani. Eppure le domande bocciate domenica
scorsa potevano sembrare retoriche. Più che referendum, erano
plebisciti. «Gli immigrati non li vogliamo, siete d’accordo, vero?».
«Pace fatta con i guerriglieri, giusto?». Come si fa a essere contro la
pace? Eppure l’insoddisfazione popolare e il rigetto verso i leader sono
stati più forti: a Budapest la maggioranza è rimasta a casa,
vanificando la prova di forza di Orbán; a Bogotà la maggioranza si è
schierata contro.
Ancora una volta, il fenomeno travalica le
categorie storiche di destra e sinistra. In Ungheria la destra è uscita
ridimensionata nella sua ambizione di ergersi a regime e ritagliarsi uno
spazio al di fuori dalle leggi europee; ma in Colombia la destra ha
vinto, denunciando l’accordo con gli ex terroristi come un cedimento
all’ondata postcastrista e chavista che ha percorso l’America Latina
lasciando disastri dal Venezuela al Brasile. La mancanza di lavoro e le
difficoltà economiche aiutano a capire il malcontento, ma non spiegano
tutto: mentre il mondo si piegava nella crisi, la Colombia cresceva al
ritmo del 4% l’anno. La prevalenza del no ai referendum non è un
fenomeno inedito.
I n Italia ad esempio, sino alle grandi vittorie
di Segni, gli elettori avevano sempre votato no (in particolare
all’abrogazione del divorzio e dell’aborto). Dopo l’esplosione del
Maggio 1968, De Gaulle sciolse l’Assemblea nazionale e stravinse le
elezioni; ma quando l’anno dopo sottopose ai francesi il suo progetto di
riforma costituzionale, all’insegna del regionalismo e della
partecipazione, fu sconfitto e si ritirò a vita privata, esprimendo
l’intenzione di morire il prima possibile (fu accontentato l’anno dopo).
E se è accaduto a un gigante della storia essere rifiutato dal popolo
che aveva salvato, figurarsi alle figure ovviamente più modeste che
calcano ora la scena mondiale ed europea. Complicata da un altro
fattore.
A Londra, dove il sistema bipolare ha retto — con
l’eccezione delle politiche 2010 —, Cameron ha pagato il proprio azzardo
con le dimissioni e l’addio alla politica. E in tutto il resto d’Europa
i poli ormai sono tre o quattro. Il risultato è evidente: arrivare al
51% in una votazione secca è molto difficile; decisamente più facile per
le opposizioni coalizzarsi contro chi comanda, scontrandosi con
questioni più grandi di lui. In Francia il presidenzialismo a doppio
turno crea una torsione per cui un candidato dal 30% o anche meno prende
tutto, e diventa rapidamente impopolare: è accaduto a Sarkozy e a
Hollande, domani accadrà forse a Juppé. La Spagna è senza governo da
quasi un anno. In Germania la «Grosse Koalition» è di fatto un
centrosinistra, con il centro che traballa e la sinistra che affonda. In
Italia Renzi ha creduto di rafforzare il sì offrendo la propria testa
all’elettorato, e ha ottenuto il risultato contrario.
Basta
leggere il sondaggio di Nando Pagnoncelli per il Corriere : nel merito
il sì prevale nettamente, punto per punto, dal Senato al Cnel al titolo
V; ma quando si tratta di dare un’indicazione netta, l’istinto popolare
tende a orientarsi sul no. La campagna è ancora lunga, gli indecisi sono
troppi per fare previsioni serie; ma la vittoria del sì, che non molto
tempo fa appariva quasi scontata, si trova a dover rimontare la corrente
della storia.