Repubblica 5.10.16
Ma io dico no all’obbligo di schierarsi sul referendum
di Roberto Esposito
VORREI
dare voce, all’interno del dibattito aperto da Repubblica sul
referendum del 4 dicembre, a una parte non esigua di italiani che vivono
con crescente disagio, e anche un certo fastidio, questa vicenda. Ciò
trapela dalla tendenza, dimostrata da più personalità del mondo della
politica, a sottrarsi alla domanda asfissiante, loro continuamente
rivolta da mezzi di informazione, talk show e anche colleghi e amici, di
rendere pubblico il loro voto.
Per alcuni di essi si tratta di
riserbo istituzionale di chi ha occupato, o ancora occupa, cariche di
particolare rilievo pubblico e che dunque ritiene di dover restare, se
non al di sopra delle parti, almeno fuori dallo scontro diretto. Magari
cercando di approfondire i contenuti del quesito referendario, senza
esibire subito la propria scelta. Ma non si tratta solo di questo, come
dimostra il silenzio eloquente di importanti figure della cultura
italiana — filosofi, storici, scrittori — sempre più proclivi a trarsi
fuori da quello che è destinato a diventare il mantra di queste prossime
settimane, sì o no, in un quadro in cui ogni altra risposta, più
argomentata, come ogni altra distinzione, è esclusa in linea di
principio. E anzi stigmatizzata, come inutile perdita di tempo o
incapacità di decidere, da entrambi gli schieramenti.
Credo si
debba evitare l’interpretazione, assai facile, che si tratti di una
sottrazione di responsabilità o addirittura di una manifestazione di
qualunquismo. Del timore di schierarsi per non inimicarsi una parte — il
cinquanta per cento — degli elettori potenziali. Non è così. Almeno per
alcuni, come chi scrive, non è così. Non c’è, in questo atteggiamento,
nessun timore del conflitto. Che — come ha spiegato Machiavelli — è il
sale della politica, la sua condizione costitutiva. Senza la differenza,
e anche il contrasto aperto, viene meno la ragione, e anche il
linguaggio della politica. Semplicemente, non è il nostro conflitto. Non
è un conflitto affermativo — tra visioni delle cose, modelli
socio-culturali, opzioni sulle condizioni di vita dei cittadini. Ma un
conflitto negativo. In cui ciò che conta è contraddire, indebolire,
umiliare l’avversario. Non tanto per ciò che dice, ma per ciò che
simbolicamente rappresenta, se non per il suo stesso modo di essere. Di
volta in volta contestato, offeso, dileggiato dal fronte avverso. Un
conflitto che si è colorato, nel tempo, di umori e sfide personali, cui
alcuni, o molti, che non amano accodarsi a schieramenti precostituiti,
si sentono estranei.
Non è stato così per alcuni referendum
precedenti che hanno contribuito a fare la storia di questo Paese.
Affermando, talvolta, posizioni costitutive della nostra civiltà
politica, giuridica, culturale. Essi vertevano sulla difesa o la
rivendicazione di diritti fondamentali, sul modo di intendere il senso e
le finalità della nostra convivenza, sulla parità di genere e di
possibilità di vita, su scelte bioetiche e biopolitiche decisive per la
società contemporanea. Certo, anche un referendum sulla Costituzione,
nessuno più di esso, può svolgere una funzione simile. Ma non se è
presentato — inizialmente dal Presidente del Consiglio — e poi
interpretato da entrambe le parti in causa in una maniera esacerbata,
aggressiva, fatta di valutazioni esagerate o di previsioni apocalittiche
da scontro finale tra bene e male, tutto e nulla, progresso o
restaurazione, come ha notato ieri anche il Direttore di questo
giornale.
Questa modalità fa di un istituto utile, e anche
necessario, della democrazia rappresentativa — visto che immette in essa
un elemento vitale di democrazia diretta — un dispositivo propriamente
teologico-politico. Perché basato su una bipolarità escludente tra il sì
e il no e dunque su una concezione teologica e metafisica della
politica. Non mi pare sia il modo migliore per superare antipolitica e
populismo. Tale procedura unisce il corpo politico attraverso una
drastica frattura che lo spacca tra campi avversi e inconciliabili. Per
secoli, o millenni, la metafisica si è costituita su alternative
bipolari tra bene e male, essere e divenire, ordine e conflitto. È
proprio quanto dovremmo, a partire dal 5 dicembre, cercare di lasciarci
alle spalle. Ma è una speranza fondata?
(L’autore è professore di Filosofia teoretica alla Normale di Pisa)