Corriere 4.10.16
L’angosciante rivoluzione demografica
di Ernesto Galli della Loggia
C’è
una patologia all’apparenza inevitabile dei regimi democratici: il
«presentismo». Cioè la fisiologica difficoltà dei loro governi nel
prendere decisioni atte a contrastare quei fenomeni di lunga durata che
richiedono contromisure sui tempi lunghi, politiche che magari durano
anni e anni. Di regola, insomma, le democrazie decidono spingendo lo
sguardo mai oltre la più vicina scadenza elettorale. È anche per questo
che la rivoluzione demografica — cioè il forte calo della natalità che
si verifica da anni in tutto l’Occidente, ma che in Italia è sempre più
vertiginoso — ci trova del tutto impreparati e può manifestare tutti i
suoi effetti devastanti. Sui quali si leggono ora con molto profitto le
pagine intelligenti di Ugo Intini ( Lotta di classi tra giovani e
vecchi? , prefazione di Giuseppe De Rita, Ponte Sisto, pp. 160, e 12),
divenuto da esponente di punta del socialismo riformista italiano un
appassionato saggista.
Si tratta di pagine che non si leggono
senza che nasca dentro un’angoscia sottile. Le cifre da sole sono
impressionanti. L’Europa, che ancora nel 1900 rappresentava oltre un
quarto dell’umanità, nel 2050 ospiterà sì e no il 5 per cento degli
abitanti della Terra. Negli Stati Uniti si calcola che più o meno entro
il 2043 i bianchi di origine europea diventeranno una minoranza. Per
parlare di noi, invece, già nel 2030, cioè in pratica domani, gli
ultrasessantenni costituiranno la metà della popolazione italiana,
mentre del poco più di mezzo milione di bambini che sono nati nella
Penisola nel 2014, un’assoluta maggioranza (398.540) aveva almeno uno
dei genitori non italiano.
Ma il cuore del libro di Intini si
sofferma come è ovvio non tanto sulle cifre, quanto sulle conseguenze
che presumibilmente esse avranno o stanno già avendo. A cominciare da un
certo diffuso venir meno nei più diversi ambiti sociali di questa parte
del mondo della vitalità, del coraggio di rischiare e di gettarsi in
imprese nuove, della fantasia e della capacità inventiva. La vecchiaia,
osserva giustamente il nostro autore, non è mai stata un motore dello
sviluppo, e quella italiana è più delle altre, ormai, una società di
vecchi. Lo sanno a loro spese i giovani. Al loro elevatissimo tasso di
disoccupazione fa da contrappunto il fatto emblematico che nel nostro
Paese le pensioni impegnano già oggi risorse quattro volte superiori a
quelle della scuola, e il doppio la sanità (il cui bilancio, dal canto
suo, è assorbito per il 50 per cento dall’assistenza sanitaria destinata
agli anziani).
Tutto si riflette come è ovvio in un impoverimento
generale. Si rovesciano contemporaneamente antichi paradigmi e antiche
illusioni di progresso che sembravano iscritti nella natura stessa delle
cose.
La scolarità decresce, decresce il numero dei laureati,
mentre si profilano fenomeni per l’innanzi impensabili, come la sempre
più percepibile concorrenza sul piano sessuale tra maschi anziani in
grado di disporre di maggior reddito e maschi giovani più poveri,
probabilmente destinati a restare tali; mentre aumenta di conseguenza il
numero dei padri ultracinquantenni, nonché l’ammontare delle vendite
del Viagra e dei cosmetici maschili. Ma la rivoluzione demografica e il
conseguente invecchiamento, oltre il costume, cambiano ovviamente anche
la politica. Società di anziani come le nostre non sono più capaci di
immaginare il futuro, di fare progetti in grande, si barricano dietro
politiche deflazionistiche e di austerità, per loro natura incuranti
dello sviluppo che servirebbe ai giovani, e che invece garantiscono i
risparmi di chi ha potuto risparmiare, e cioè in genere dei vecchi.
È
difficile non concludere che forse non è il profetizzato tramonto
dell’Occidente: certo però è qualcosa che gli assomiglia molto.