Corriere 4.10.16
La sfiducia dei giovani
di Dario Di Vico
Un’indagine
condotta da Acli e Cisl su un campione di ventenni romani e presentata
ieri ha destato più di qualche attenzione perché, in base a un inedito
«indice di arrendevolezza» predisposto dai ricercatori, ci racconta che
due terzi dei giovani pur di trovare un posto di lavoro sarebbero
disposti a rinunciare alle sacre conquiste dei padri e delle madri.
Ferie, copertura della malattia, indennità di maternità. È la prima
volta che a livello di rappresentazione collettiva emerge un
orientamento così remissivo, finora un certo tipo di comportamenti
eravamo abituati a rintracciarli in scelte individuali e comunque
isolate. È un dato, quello romano, che di conseguenza colpisce e di cui
ci sarà tempo e modo di vagliare la reale profondità. Non dobbiamo però
escludere a priori l’ipotesi più drastica, ovvero che mentre noi ci
accapigliavamo sull’aderenza o meno delle norme del Jobs act ai
consolidati principi della cultura del welfare i nostri ragazzi, per
paura, ci abbiano sconfessato e siano diventati «selvaggiamente
liberisti», sulla loro pelle per di più. Battute a parte, anche i
risultati che giungono da quest’ultima rilevazione di Acli-Cisl possono
essere utili se ci spingono verso una doppia operazione. La prima è
quella di intensificare il lavoro di ricognizione sulle tendenze
giovanili, sul mutamento degli stili di vita e dei riferimenti culturali
di una generazione «esclusa» per descrivere la quale siamo arrivati
persino a usare — con il termine apartheid — il lessico del Sudafrica
pre-Mandela.
M i è capitato più volte di dire che il tratto
saliente della disuguaglianza in Italia non si concretizza tanto in
un’iniqua distribuzione del reddito quanto nel fossato che divide le
generazioni come mai era successo in passato, ma di questa piccola
verità il sindacalismo italiano fatica a prendere atto. La seconda è
un’operazione che può apparire più tradizionale e che invita a non
demordere nella ricerca delle policy destinate a combattere attivamente
la disoccupazione. Purtroppo in Italia si è abituati ad accogliere i
dati, sovente contraddittori dell’Istat o dell’Inps, con commenti da
stadio più che dolersi o comunque interessarsi del merito.
Con il
Jobs act il governo aveva pensato di utilizzare l’auspicata ripresa
economica per stabilizzare una quota significativa del precariato e su
questa opzione ha scommesso una generosa posta di bilancio. Purtroppo il
ciclo economico non ha assecondato quest’indirizzo e la manovra ha
prodotto dei risultati ma non quelli che avevamo sognato. Con il senno
di poi si può osservare come le nuove norme avrebbero avuto bisogno di
un accompagnamento più largo, di creare sinergie con le politiche attive
e più in generale di dotarsi di una bussola per navigare in quella che
viene definita la grande trasformazione del lavoro. È vero infatti che
continuano a convivere alti tassi di disoccupazione con l’impossibilità
di trovare sia saldatori italiani da assumere nell’industria
cantieristica sia giovani che siano disposti a lavorare da un fabbro o
più in generale a imparare i tradizionali mestieri artigianali. Ed è
anche vero che un mercato alle prese con crescenti fattori di incertezza
continua a richiedere flessibilità estrema fino a forzare indebitamente
strumenti come i voucher, i tirocini e gli stage. Assodato quanto sia
difficile mettere le briglie a un mutamento che ha carattere persino
epocale, a questo punto però il rischio sembra essere un altro e assai
contingente: che la politica italiana disillusa dai risultati ottenuti
in materia di occupazione decida di cambiare cavallo. Di scommettere su
un’altra constituency, magari elettoralmente più affidabile come sembra
essere quella dei pensionati. I segnali (evidenti) ci sono e il pericolo
che i grandi assenti della legge di Bilancio 2017 alla fine siano i
giovani e il lavoro appare in questi giorni elevato. Andrebbe evitato
invece che le politiche economiche assomigliassero a un bricolage del
consenso, a un tirar fuori dal mazzo la carta giudicata più adatta per
giocare la partita del momento.