Corriere 4.10.16
Ungheria
La facile strada dei referendum che non colmano i vuoti politici
di Massimo Nava
Viktor
Orbán sconfitto in Ungheria: un referendum anti immigrati naufragato
nell’assenteismo. Dodici ore dopo i cittadini della Colombia hanno
bocciato l’accordo di pace con le Farc, le forze guerrigliere marxiste,
che avrebbe chiuso trent’anni di massacri. Situazioni diverse che
dovrebbero fare riflettere sul senso di consultazioni popolari
condizionate dall’astensionismo che portano nell’urna opposizione al
governo, contestazione delle élite e fattori emozionali e ideologici. È
stato il caso di Brexit.
S i fa presto a esultare per la sconfitta
di Viktor Orbán in Ungheria: un referendum anti immigrati naufragato
per troppo assenteismo, come le povere vittime nel Mediterraneo, e lo
spirito europeo salvo. La notizia contraria arriva 12 ore dopo: i
cittadini della Colombia hanno bocciato l’accordo di pace con le Farc,
le forze guerrigliere marxiste, che avrebbe chiuso trent’anni di
massacri e strisciante guerra civile. Troppo rancore, troppi lutti, per
cancellare tutto con un trattato. Anche in Colombia, tuttavia,
l’assenteismo è stato elevato. Per fortuna della Colombia, le Farc hanno
annunciato che non terranno conto del risultato e che si impegnano a
perseguire il processo di pace. Al contrario, il messaggio dall’Ungheria
resta inquietante per l’Europa e non sarà certo il leader
ultranazionalista Viktor Orbán a fare un passo indietro nonostante la
sconfitta: «Il 98% dei votanti (!) è con me!».
Situazioni
diversissime per storia e problematiche, che dovrebbero fare riflettere
sul senso di consultazioni popolari condizionate dall’astensionismo e
influenzate da motivazioni degli elettori che aggirano la materia
referendaria per mettere nell’urna anche qualche cosa d’altro:
opposizione al governo in carica, contestazione delle élite al potere e
fattori emozionali e ideologici raramente accompagnati da una conoscenza
approfondita della materia del contendere. È stato il caso di Brexit:
la maggioranza dei no espressa da una minoranza, vittoriosa grazie
all’astensionismo delle classi più giovani, alla voglia di punire il
premier Cameron e all’irrazionale paura degli immigrati. L’uscita della
Gran Bretagna, voluta soprattutto dalla provincia profonda e anziana e
dalle classi popolari, ha conseguenze drammatiche per l’Europa e per la
stessa Gran Bretagna. A ben vedere, una minoranza di inglesi (non gli
scozzesi e nemmeno gli irlandesi!) ha rotto un patto condiviso da 500
milioni di europei che si sono potuti esprimere sulla materia soltanto
attraverso i commenti dell’opinione pubblica.
È anche il caso
recente del referendum nel Canton Ticino, che fa passare una proposta
contro i lavoratori italiani senza tenere in alcun conto la realtà dei
rapporti economici e del mondo del lavoro transfrontaliero: un voto che
colpisce gli italiani, ma danneggia soprattutto i ticinesi.
E
potrebbe essere il caso del referendum sulle riforme costituzionali in
Italia: in questo senso vanno letti gli ultimi interventi di Napolitano e
di Renzi, tesi a sgomberare il campo da condizionamenti politici per
riportare gli elettori alla materia del contendere. Ma è del tutto
evidente che il fronte del «no» vota in opposizione a Renzi e al
governo, con un minimo interesse all’abolizione del Senato e senza
tenere conto delle conseguenze sul medio e lungo periodo. È stato così
anche in passato, per le consultazioni sul trattato costituzionale
europeo. I francesi non votarono sul progetto di Costituzione, ma contro
il presidente in carica Chirac che volle la consultazione. Olandesi e
danesi fecero altrettanto, di fatto dando il primo colpo al processo
federativo continentale. A ben vedere, il trattato di Lisbona fu un
successivo rimedio al disastro, un rimedio inventato dai capi di Stato e
di governo.
Riflettere sul senso dello strumento referendario
significa riflettere sul senso della democrazia diretta, mitizzata, a
volte a sproposito, rispetto alla vituperata democrazia rappresentativa.
Il referendum, di fatto, riduce o conferma la legittimità del governo
che lo ha indetto, ma limita e sottrae la responsabilità di decidere, di
scegliere, di guidare una comunità, grazie anche a competenze,
conoscenza dei problemi, lungimiranza politica, qualità e titoli che non
appartengono necessariamente al comune cittadino. Altra cosa è una
consultazione popolare su questioni etiche, quali il divorzio o
l’aborto. Nella crisi attuale dei partiti e delle classi dirigenti — in
parte sorprese, ma in parte complici dell’onda lunga del populismo —
l’arma del referendum colma probabilmente un vuoto di democrazia e di
partecipazione ed è la risposta più semplicistica alla diffidenza verso
la politica che non decide e che tradisce il mandato popolare. Ma il
referendum consegna il destino di un Paese (o di un sistema di Paesi)
alla volontà di una minoranza strumentalizzabile, che spesso traduce in
un voto una narrazione emozionale/ideologica che non sempre rispecchia
il quesito tecnico o la valutazione delle conseguenze.