lunedì 3 ottobre 2016

Corriere 3.10.16
Il popolo dei migranti. Chi sono, da dove vengono
risponde Sergio Romano

I flussi migratori nel nostro Paese possono essere spiegati in mille modi. Mi chiedo tuttavia perché mai questo problema sia emerso soltanto ai nostri giorni. Non abbiamo sempre avuto a che fare con un’Africa sovrappopolata e povera? Mi pare che, dopo che questi popoli abbiano preso come esempio l’Europa e l’America, non ci siano più argini che tengano. Lo scontro sembra nascere dal confronto tra il nostro e il loro tenore di vita. Certo l’Africa non poteva restare «Il Paese dei ciechi» (il titolo del romanzo di fantascienza di H.G. Wells), ma noi, a furia di vedere sempre oltre i nostri confini, non rischiamo forse di perdere la vista?
Piero Campomenosi

Caro Campomenosi,
Dietro ogni emigrazione di massa vi sono fenomeni politici e sociali: guerre e confitti civili, rivoluzioni, crisi economiche, epidemie. Quando le condizioni di vita in un Paese diventano intollerabili, una parte della sua popolazione parte alla ricerca di una vita migliore e sceglie come destinazione i luoghi di cui hanno maggiormente sentito parlare. Esistono già molti studi sulle migrazioni del XX secolo, dagli scambi di popolazione fra Grecia e Turchia dopo la Grande guerra al milione di francesi che abbandonò l’Algeria dopo la proclamazione dell’indipendenza nel 1962.
Il fenomeno a cui dobbiamo fare fronte in questi giorni comincia con il difficile decollo dei nuovi Stati africani nati dalla decolonizzazione. Quanto maggiore è il numero dei Paesi in cui il governo è troppo corrotto, litigioso e inetto per garantire una vita decorosa ai propri cittadini, tanto maggiore è il numero delle persone che scelgono di partire. Il fenomeno era già evidente quando il governo Berlusconi, nell’agosto del 2008, firmò un accordo con la Libia che attribuiva alle sue autorità il compito di trattenere sul proprio territorio, per una prima valutazione delle richieste di asilo, i migranti e i rifugiati provenienti dai Paesi a sud del Sahara e del Sahel. Da allora la situazione è andata progressivamente peggiorando. Dopo l’operazione militare anglo-franco-americana contro Gheddafi, la Libia, anziché essere una sorta di «setaccio», è diventata un enorme varco per tutti coloro che vogliono attraversare il Mediterraneo. A sud del Sahel, nel Corno d’Africa e nel Golfo di Aden, intanto, sono numerosi i Paesi in cui si combatte una guerra civile (Sudan, Eritrea, Yemen, Congo, Nigeria) e quelli in cui una parte del territorio è controllato da bande feroci che tiranneggiano la popolazione in nome di una versione estrema del loro credo religioso.
Esistono poi, caro Campomenosi, i problemi provocati da una combinazione di fattori interni ed esterni. Dalla invasione sovietica del dicembre 1979, l’Afghanistan è un campo di battaglia. Dalla invasione americana del 2003, l’Iraq ha perso la sua unità ed è teatro di una guerra civile fra sunniti e sciiti in cui sono coinvolti altri attori mediorientali. Nell’Africa del Nord e nel Levante non si combatte soltanto in Siria. Si combatte anche, con maggiore o minore intensità, nella Tunisia meridionale, in Libia e nel Sinai egiziano.
Vi è poi un fattore generazionale, meno facilmente calcolabile, che contribuisce ad allargare le dimensioni del fenomeno. I migranti, oggi, sono in buona parte giovani, più educati della generazione precedente e decisi a correre grandi rischi per avere una vita migliore di quella dei loro genitori. Questo spiega tra l’altro perché fra i migranti vi siano molti bambini e donne incinte. E questo spiega infine perché nessun Paese della Unione Europea possa da solo affrontare un problema sociale e umano di queste dimensioni.