Corriere 31.10.16
Perché dico no a un salto nel buio
di Mario Monti
Invidio
quei cittadini che, di fronte ai limiti della nuova Costituzione, si
sentono sicuri nel dire che è migliore dell’attuale. Anche a me farebbe
piacere votare Sì. Ma, a mio giudizio, le modifiche peggiorative
prevalgono su quelle migliorative.
Caro direttore, in
una recente intervista a Federico Fubini ( Corriere del 18 ottobre) ho
preannunciato il mio No al referendum sulla riforma costituzionale. Il
beneficio che la nuova Costituzione arrecherebbe, in termini di qualità
della governance, è a mio giudizio nullo o negativo, in quanto le
modifiche peggiorative prevalgono su quelle migliorative. Elevato è
peraltro il costo che il Paese sta già pagando da qualche tempo, a
carico del bilancio dello Stato, per la creazione di un clima di
consenso inteso a favorire il Sì al referendum. Mi è stato chiesto di
chiarire meglio la mia posizione nel merito della riforma. Lo faccio
ricorrendo di nuovo alla Sua ospitalità.
Bicameralismo temerario.
Per superare il bicameralismo paritario, non si è optato per una seconda
Camera di riflessione e orientamento, come la House of Lords; o di
raccordo strutturato con i governi dei territori, come il Bundesrat; o
più semplicemente per l’abolizione del Senato. Si è optato per un
bicameralismo alquanto «temerario» («di persona che affronta i pericoli
senza calcolo, sconsiderato o ardimentoso», secondo il dizionario
Sabatini Coletti). Si è scelto di accrescere di molto, nell’architettura
della Repubblica Italiana, il ruolo degli esponenti politici dei Comuni
e soprattutto delle Regioni, proprio di quel segmento della classe
politica che negli anni scorsi, con le dovute eccezioni, non ha offerto
l’esempio migliore di gestione corretta e avveduta della cosa pubblica.
Poiché
il nuovo Senato avrà pur sempre funzioni importanti (ancorché difficili
da prefigurare concretamente oggi) in campo legislativo e di controllo,
temo due conseguenze : da un lato, un’accresciuta e forse caotica
capacità di pressione del personale politico territoriale sulle
decisioni nazionali, con la possibilità di esigere «contropartite» a
fronte del proprio consenso; dall’altro, un contributo di riflessione —
ad esempio sulla dimensione europea e internazionale, così come sugli
effetti di lungo periodo dei provvedimenti — che non si preannuncia
necessariamente distaccato e autorevole. In un disegno di legge
costituzionale che avevo presentato in Senato come contributo alla
riforma, si prevedeva che anche figure rappresentative della società
civile e della cultura operanti nelle regioni potessero essere elette
dai Consigli regionali a far parte del nuovo Senato. Quel disegno di
legge, lo dico en passant, prevedeva che ai senatori a vita (a parte gli
ex presidenti della Repubblica) non spettassero né indennità né
immunità.
Costituzione dagli effetti imprevedibili. Nel momento in
cui saremo chiamati a scegliere tra la nuova Costituzione e quella
vigente, non sapremo come avverrà l’elezione dei senatori. Sapremo che
avverrà «in conformità alle scelte espresse dagli elettori», ma in un
modo che sarà determinato da una legge ordinaria, che verrà presentata e
adottata dopo il referendum. Inoltre, non sapremo con quale legge
elettorale andremo a votare in futuro per eleggere i membri della Camera
dei Deputati. È vero che al referendum non saremo chiamati ad
esprimerci sulla legge elettorale, ma è ovvio che gli effetti concreti
della nuova Costituzione, su cui ci dovremo esprimere, dipenderanno in
buona parte dalla legge elettorale.
Una scelta storica, ma al
buio. Invidio quei cittadini che, di fronte a questi limiti e a queste
incognite, si sentono sicuri nel dire che la nuova Costituzione,
destinata a reggere la vita italiana per decenni, è migliore di quella
attuale. Anche a me farebbe piacere votare Sì. È più facile. E poi,
diciamolo, sentirsi dalla parte del «nuovo» gratifica, anche se più
d’una volta in Italia il «nuovo» è stata la scorciatoia per tornare al
«vecchio» però con la coscienza a posto. Ma trovo poco serio che si
chiamino i cittadini ad una scelta, di portata storica, su un oggetto
che per molti aspetti è ancora misterioso. Sulla base di ciò che
sappiamo oggi, non ritengo affatto che la Costituzione proposta sia
migliore di quella attuale.
Costituzione, ricerca del consenso,
governabilità. Non sono mai stato tra coloro che hanno esaltato la
Costituzione attuale come «la più bella del mondo». Ne vedo i limiti. Ma
so anche che essa non ha mai impedito la governabilità dell’Italia,
quando i governi sono stati sufficientemente risoluti. Con le molte
decisioni che ha preso, diverse delle quali ho condiviso e sostenuto, il
governo Renzi lo ha dimostrato chiaramente. E il governo Ciampi, il
primo governo Amato, il primo governo Prodi che ha portato l’Italia
nell’euro, per citarne alcuni, hanno o no governato? Sono stati governi
che hanno governato con efficacia, pur con la Costituzione attuale,
anche perché — soprattutto questi ultimi — non hanno esitato, quando
necessario, a prendere decisioni impopolari e non hanno cercato il
consenso a carico del bilancio dello Stato.
Costi della politica.
Trovo im peccabile la parte del quesito referendario che parla di
«contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni», che certo
si verificherà con la riduzione, opportuna, del numero dei parlamentari.
Non si parli però, come fa uno degli slogan, di riduzione dei «costi
della politica». Il costo per il bilancio dello Stato delle molte misure
prese per favorire il consenso alla nascita della Costituzione è un
multiplo di quanto si potrà risparmiare sul funzionamento delle
istituzioni. E ha ritardato un più solido ancoraggio dell’Italia nel
porto della stabilità finanziaria, nel caso arrivi una nuova tempesta.
Pur affidata alle cure solide e sagge del ministro Padoan, la politica
del bilancio pubblico non è certo stata insensibile — nei grandi saldi e
nella minuta composizione delle misure — alle esigenze di creare
consenso a destra e a manca, con effetti limitati sulla domanda
aggregata e sul prodotto interno lordo, ma forse maggiori sulla
gratitudine complessiva e sulla propensione a esprimerla nell’urna.
Detto
questo, a differenza di molti sostenitori del No non ho mai sostenuto
che, ove vinca il Sì, la nuova Costituzione metterebbe a rischio la
democrazia. E ho sempre detto che, anche in caso di vittoria del No, non
riterrei né doveroso né auspicabile che il premier Renzi si dimettesse.
Mantengo questa opinione, pur trovando fuori luogo i toni sprezzanti
che, sul tema del referendum, il presidente del Consiglio sta usando nei
confronti non solo dei suoi avversari politici ma anche di chi, al di
fuori della battaglia politica, si sforza di ragionare con la propria
testa.