Corriere 27.10.16
La crisi della sinistra mette a rischio la democrazia
di Aldo Schiavone
C’era
 una volta la sinistra italiana. Ora, sono rimaste solo le sue 
lacerazioni e i suoi contrasti. Ma dove più le idee, i progetti, le 
interpretazioni nutrite di analisi e di previsione?
La campagna 
per il referendum si sta rivelando per entrambi gli schieramenti 
(nonostante le molte ragioni del Sì) la rivelazione spietata di una 
condizione penosa: con i rancori e le divisioni invece del pensiero. 
Certo, si potrebbe dire che quando rifletteva la sinistra non vinceva: e
 vi sarebbe persino qualcosa di tragicamente vero nella battuta; e però,
 chi ha stabilito che per governare bisogna smettere di pensare?
Fuori
 d’Italia, tuttavia, le cose non vanno meglio. Dov’è la socialdemocrazia
 tedesca, che in un momento cruciale per il suo Paese — di nuovo, dopo 
settant’anni, proiettato sulla scena del mondo — sembra ridotta al 
silenzio, e non ha una proposta, un’alternativa, una critica? E cosa ne è
 dei socialisti francesi, che balbettano senza uno straccio di 
riflessione su cosa stia diventando la Francia? Per non dire (sorvolando
 sugli spagnoli e gli inglesi) dei democratici americani, alle prese, 
anche se non solo per colpa loro, con la peggiore campagna elettorale 
che si ricordi, in cui non viene sollevato un tema, o indicato un 
orizzonte, né politico né sociale, davvero all’altezza di una leadership
 globale — altro che presidenza del pianeta!
La verità è che siamo
 di fronte a un problema che coinvolge le sinistre dell’intero 
Occidente: alle prese con una crisi di identità e un deficit di pensiero
 che sono probabilmente i più gravi di tutta la loro storia, dalla 
Rivoluzione francese in poi. Ma denunciare questo vuoto ormai non basta 
più. Bisogna scoprirne la causa, e cercare di porvi rimedio. Non è in 
questione solo il destino di una parte politica (che potrebbe anche non 
stare a cuore). Senza una sinistra degna di questo nome, o di qualcosa 
che ne prenda il posto, è l’intera democrazia dell’Occidente, se non 
addirittura l’idea stessa di politica, a ritrovarsi in pericolo: come 
infatti dovunque sta puntualmente avvenendo.
La causa, 
innanzitutto. Il pensiero democratico moderno — sia nella versione 
liberal americana, sia in quella europea, di impronta socialista — è 
rimasto fondamentalmente una cultura legata al mondo industriale; al 
mondo, cioè, che lo aveva prodotto.
Presupponeva un tessuto 
sociale centrato sulla grande industria manifatturiera e sul lavoro 
intellettuale che ne era premessa e conseguenza — classe operaia e 
professioni «borghesi» o di middle class .
Quando quell’universo 
si è polverizzato nell’impatto con la rivoluzione tecnologica, alla fine
 del ventesimo secolo, la tradizione democratica e socialista non è 
stata capace di analizzare la profondità sconvolgente della 
trasformazione, né tantomeno di adeguarvisi.
È rimasta aggrappata 
ai molti relitti del vecchio mondo, ed è diventata, suo malgrado, 
obbiettivamente conservatrice: vorrebbe parlare del futuro, ma non fa 
che evocare i fantasmi del suo passato; non sa più rivolgersi ai popoli,
 ma riproduce solo élite.
I rimedi. Non c’è speranza senza 
ricostruire in modo radicale le categorie fondamentali del pensiero 
democratico-socialista (questo vale anche per l’America), a cominciare 
dalla coppia fatale che regge tutto il resto: il lavoro e l’eguaglianza.
La
 modernità si è formata intorno alla forza di socializzazione e di 
eguagliamento del lavoro di massa produttore di merci, e del suo 
contraltare intellettuale.
Il lavoro come straordinario motore di 
emancipazione e di legame sociale. Quel lavoro, oggi, è in via di 
estinzione, almeno in Occidente: le sue nuove forme sono completamente 
diverse, e attraverso di esse spesso non passa più alcuna strada verso 
l’eguaglianza e l’emancipazione, ma solo frantumazione e competitività.
Come
 rispondiamo? E di quanta — e soprattutto di quale — eguaglianza ha 
bisogno una democrazia, perché continui a funzionare? Siamo perduti, se 
non rispondiamo.
 
