Corriere 27.10.16
Oltre le ragioni e i torti del sì e del no
di Salvatore Settis
Caro
 direttore, h o molto apprezzato il suo editoriale del 12 ottobre, in 
particolare l’invito a «spiegare e comprendere meglio su che cosa 
andiamo a votare» nel referendum, superando una «battaglia di fazioni» 
che «oscura i fatti e la ragionevolezza». Personalmente spero che 
prevalga il No a una riforma confusa (per esempio su temi cruciali come 
il nuovo Senato, l’elezione del presidente della Repubblica, il processo
 legislativo). Ma spero altresì che, se il No vincerà, Renzi continui a 
governare fino alla fine della legislatura, mostrando che cosa questo 
governo sa fare con questa Costituzione. C’è infatti qualche incoerenza 
fra due opposte affermazioni del presidente del Consiglio: da un lato, 
che cambiare la Costituzione è necessario per evitare la paralisi nel 
processo legislativo, e dall’altro che il governo passa di successo in 
successo approvando leggi come il Jobs act o la «Buona scuola». 
D’altronde, come agitare lo spettro di una paralisi dei processi 
legislativi proprio mentre il più intricato e complesso, la riforma 
della Costituzione, è giunto al termine del suo iter parlamentare? E a 
proposito di incoerenze, come non dar ragione (invece) a Renzi, quando 
rinfaccia ai parlamentari di sinistra che pretendono l’immediata 
modifica dell’Italicum e voteranno No al referendum di avere, pochi mesi
 fa, votato in Aula a favore dell’una e dell’altra legge, nonché del 
loro «combinato disposto»?
La paralisi del sistema politico ove 
non vincesse il Sì è una favola a cui è difficile credere. Come ha 
scritto Tony Barber sul Financial Times (5 ottobre) «il Parlamento 
italiano approva più leggi ogni anno di quelli di Francia, Germania, 
Gran Bretagna e Usa». Il deprecato ping pong fra Camera e Senato non 
risponde al vero: nel 2008-13 solo 15 leggi su 391 hanno subito letture 
plurime, mentre il 77% ha raggiunto il traguardo con un solo passaggio 
alla Camera e al Senato. Durante i governi Berlusconi IV-Monti-Letta, il
 Parlamento ha approvato in media una legge ogni 8,6 giorni, non poi 
così male. Perciò ha ragione Barber: «l’Italia non ha bisogno di più 
leggi da approvarsi più velocemente, ma di meno leggi di miglior 
qualità». Né regge la tesi che, in caso di vittoria del No, nessuno avrà
 più animo di toccare la Costituzione: dopo il No alla riforma 
Berlusconi nel referendum del 2006 il Parlamento ha modificato l’art. 27
 (2007) e poi gli artt. 81, 97, 117 e 119 (2012), per non dire della 
stessa riforma Renzi-Boschi. Molto più, per dire, degli Usa, dove 
l’ultimo emendamento alla Costituzione è del 1992, e il penultimo del 
1971.
Chi è oggi per il No non sta dicendo che la Costituzione non
 si può modificare mai e poi mai. Vi sono, anzi, riforme non contemplate
 nel testo sottoposto a referendum, ma che appaiono necessarie. Per 
esempio, l’introduzione di un quorum per la validità dei referendum 
costituzionali: è infatti arduo per i cittadini capire come mai il 32,15
 % degli elettori non basti a render valido il referendum sulle trivelle
 (aprile 2016), mentre basterebbe quando si voterà sulla Costituzione 
(dicembre 2016). Ma come entrare nel merito di una riforma di 2.664 
parole che cambia 47 articoli su 139? L’accumulo di modifiche eterogenee
 rende ardua la discussione punto per punto e trasforma il referendum in
 un plebiscito non sulla riforma, ma sul governo che l’ha proposta. Con 
una riforma più compatta e una miglior regolazione di come vadano 
formulati i quesiti si eviterebbero contestazioni e proposte di 
«spacchettamento».
Ma di fronte a una battaglia di fazioni sul Sì o
 sul No sarebbe salutare tornare ai fatti nudi e crudi. Ai dati Istat 
secondo cui l’economia occulta vale 211 miliardi (13% del Pil), con un 
netto incremento rispetto al 2011 (12,3 %); all’emorragia di giovani 
ricercatori che, formatisi in Italia con alto costo per la spesa 
pubblica, sono costretti a cercare impiego in altri Paesi; al degrado 
delle istituzioni culturali e della ricerca; alle disfunzioni della 
sanità; al 38% di disoccupazione giovanile (media europea 22%). A tali 
problemi non si vede come ponga rimedio la riforma costituzionale, data 
per approvata nel sito governativo investinitaly.com, dove candidamente 
si ammette che «un ingegnere italiano ha un salario medio di 38.500 
euro, mentre in altri Paesi europei il salario medio supera i 48.500 
euro». Eppure nella prima parte della Costituzione (che tutti giurano di
 non voler modificare) il diritto al lavoro, il diritto alla cultura, il
 diritto alla salute, il diritto all’equità fiscale sono fissati senza 
equivoci.
Ma non cambiare la prima parte della Costituzione non 
basta: bisognerebbe applicarla seguendo i principi che contiene, e che 
guidarono la rinascita dell’Italia in un lunghissimo Dopoguerra che per 
troppi aspetti dura ancora. Se no, finiremo col trattare le promesse 
della Costituzione come bottiglie di vino buono che migliora 
invecchiando, ma senza che nessuno lo beva mai. Sarebbe un miracolo di 
Cana alla rovescia, e il vino buono si trasformerebbe in inutile acqua 
stagnante.
 
