mercoledì 26 ottobre 2016

Corriere 26.10.16
I decimali sembrano piccoli ma alla fine pesano
di Lorenzo Bini Smaghi

Perché accapigliarsi per uno «zero virgola» in più o in meno di deficit pubblico? Che differenza c’è, in fin dei conti, tra un 2,2% e un 2,3% di disavanzo, rispetto al prodotto lordo, previsto per il prossimo anno? Non è facile capire su quali basi si sta sviluppando la discussione tra il governo italiano e le istituzioni europee sull’ultimo documento programmatico di bilancio.
Nell’unione monetaria i saldi di finanza pubblica vanno valutati in un contesto più ampio, che tiene conto non solo delle singole politiche di bilancio ma anche di quelle strutturali e della politica monetaria messa in atto dalla Bce. Non si può inoltre ignorare il fatto che, nonostante i progressi realizzati negli ultimi anni, l’unione rimane incompiuta e devono ancora essere fatti passi importanti verso una piena unione economica e monetaria, come indicato nel rapporto dei 5 presidenti dello scorso anno.
Se si considerano questi aspetti, i decimali contano. Cominciando dal quadro monetario, la Bce ha avviato dal 2014 una politica fortemente espansiva, prima attraverso la riduzione dei tassi d’interesse, addirittura ad un livello negativo, e poi con un programma di acquisto di titoli, pubblici e privati, senza precedenti. Dopo due anni, si stanno però alzando voci sempre più critiche nei confronti di queste misure. L’impatto benefico dell’espansione monetaria sembra ridursi ed essere compensato da effetti collaterali indesiderati, tra cui le distorsioni sui prezzi delle attività finanziarie, l’indebolimento della posizione reddituale delle banche e delle assicurazioni, il deprezzamento del risparmio. Uno degli argomenti spesso avanzato da chi si oppone alla politica del quantitative easing è che questa crea presso i governi un disincentivo ad attuare riforme strutturali o a risanare le finanze pubbliche. Fin quando la Bce toglie le castagne dal fuoco alla politica, perché mai questa dovrebbe fare la sua parte?
Negli ultimi tre anni, grazie all’espansione monetaria messa in atto dalla Bce, che ha ridotto i tassi d’interesse sui minimi storici, l’Italia ha risparmiato circa un punto percentuale di spesa pubblica, in rapporto al Pil (da circa il 4,8% nel 2013 al 4,0% stimato per il 2016). Il disavanzo pubblico si è tuttavia ridotto di meno (dal 2,9% nel 2013 al 2,4% previsto per il 2016, se si confermano le previsioni di crescita e d’inflazione per l’anno in corso). In effetti, non tutti i risparmi ottenuti dai minori interessi sono stati utilizzati per risanare i conti pubblici, ma è stata finanziata anche nuova spesa. L’avanzo primario, che non tiene conto degli interessi sul debito, è dunque diminuito, dall’1,9% all’1,5% (previsto). In altre parole, se la Bce non avesse fatto scendere i tassi d’interesse, oggi avremmo un disavanzo pubblico ancor più alto di tre anni fa, probabilmente superiore al 3%. Questa tendenza dovrebbe peraltro proseguire nel 2017. Secondo il Documento Programmatico di Bilancio appena approvato, gli interessi sul debito dovrebbero ridursi ulteriormente l’anno prossimo, di circa lo 0,3% del Pil italiano. Tuttavia, il deficit complessivo è previsto scendere di solo 0,1% (dal 2,4% al 2,3%). Il surplus primario (previsto sulla base di una crescita dell’1% e di una inflazione dell’1%) continuerebbe dunque a ridursi, dall’1,5% all’1,4%. L’inversione di tendenza del debito pubblico italiano viene di nuovo rinviata.
In sintesi, come avevano sottolineato gli oppositori alla politica monetaria espansiva della Bce, questa non è stata seguita da un’azione strutturale di risanamento delle finanze pubbliche. Al contrario, i benefici sono stati usati per finanziare nuove spese. Qualche decimo di punto percentuale di disavanzo pubblico in più o in meno rischia dunque (inutile negarlo) di mettere in difficoltà chi ha promosso e difeso quella politica monetaria, e di pregiudicare il suo proseguimento. Con ripercussioni negative proprio sui conti pubblici.
Il secondo punto di vista per valutare i saldi di bilancio riguarda il completamento dell’unione economica e monetaria. Ci troviamo di fronte a due visioni opposte. La prima consiste nel rafforzare i meccanismi di solidarietà finanziaria tra i Paesi membri, attraverso il completamento dell’unione bancaria e la possibilità di erogare risorse (anche in via temporanea) a favore di Paesi in difficoltà e con maggior disoccupazione. La seconda si basa invece sull’allentamento dei meccanismi di solidarietà, per fare in modo che i Paesi che non vogliono rispettare le regole di bilancio siano direttamente responsabili delle eventuali conseguenze, anche attraverso meccanismi automatici di ristrutturazione del debito eccessivo. La prima via si basa su una maggiore integrazione e fiducia tra gli Stati. La seconda si basa invece sulla cosidetta responsabilità individuale degli Stati, senza reti di salvataggio.
L’Italia è a favore della prima via, e ha recentemente presentato una serie di proposte per rafforzare l’unione fiscale che sono state apprezzate dai nostri partner. Questi potrebbero tuttavia chiedersi come la presentazione di un bilancio per il 2017 che prevede un passivo del 2,2-2,3%, a fronte di un impegno preso solo qualche mese di ridurlo all’1,8%, possa favorire quel clima di fiducia reciproca, necessario per dare seguito alle proposte di ulteriore integrazione economica e politica in Europa. Possono altresì interrogarsi sulla credibilità dell’obiettivo annunciato per il 2018, di far scendere il deficit all’1,2%, attraverso una manovra restrittiva che potrebbe aggirarsi intorno ai 20 miliardi di euro, nell’ultimo anno di legislatura.
I decimali possono sembrare piccoli in quanto tali, ma diventare grandi e carichi di significato se cumulati, anno dopo anno.