martedì 25 ottobre 2016

Corriere 25.10.16
L’Italia che non sa cambiare
Ernesto Galli della Loggia in Credere, tradire, vivere. Un viaggio negli anni della Repubblica (il Mulino)
di Aldo Grasso

Benedetto Croce sosteneva che «ogni vera storia è sempre autobiografica». Verissimo: nei giudizi, nelle ricostruzioni, nelle analisi è impossibile prescindere dalle proprie esperienze personali, dagli studi che ognuno di noi ha fatto, dalle persone che ha incontrato. Basta ammetterlo, con franchezza. Per questo Ernesto Galli della Loggia in Credere, tradire, vivere . Un viaggio negli anni della Repubblica (il Mulino) non si rifugia dietro quella forma di anonimato accademico («il noi delle tesi di laurea», diceva Roland Barthes) che normalmente usano gli storici di professione, specie quando parlano di cose recenti in cui, in qualche modo, sono coinvolti: «Di qui — scrive l’autore — la natura alquanto inconsueta di questo libro: insieme libro di storia e di ricordi, di vicende pubbliche da un lato e di sentimenti personali dall’altro. E proprio in un grumo di sentimenti (e risentimenti, perché non dirlo) è da cercare l’origine del tema di fondo delle sue pagine: la difficoltà, l’impossibilità di cambiare».
In una puntata della settima stagione di Grey’s Anatomy (anch’io ci metto qualcosa della mia vita), la grande Shonda Rhimes mette in bocca a Meredith queste parole: «Quando diciamo cose tipo “Le persone non cambiano”, facciamo impazzire gli scienziati. Perché il cambiamento è letteralmente l’unica costante di tutta la scienza… È il fatto che le persone cerchino di non cambiare che è innaturale, il modo in cui ci aggrappiamo alle cose come erano invece di lasciarle essere ciò che sono, il modo in cui ci aggrappiamo ai vecchi ricordi invece di farcene dei nuovi». Il cambiamento, con tutti i rischi che comporta, è il motore dell’esistenza. Perché allora ci rifugiamo nell’immobilismo delle idee, in una sorta di eden di specchiata moralità, finanche nel gattopardismo?
Con questo libro variegato, Galli della Loggia ci regala l’esempio più efficace della sua maniera di affrontare la storia. Seguendolo lungo le vie più personali che qui tratteggia, ci troviamo ad avere un’immagine molto più precisa, molto più concreta di questi anni, a partire dal fatidico Sessantotto. Anni che abbiamo vissuto, ma anche anni che la memoria storica cerca di levigare, smussando i contrasti e le non poche contraddizioni.
Nel parlare di questo libro non vorrei seguire il filo cronologico per non rovinare al lettore il piacere delle trame, per non rivelargli come va a finire. Preferirei parlare di alcuni temi che ricorrono e si rincorrono come leitmotiv , come fari nella notte per le nostre povere risorse intellettuali stremate dagli eccessi d’informazione.
Uno di questi è appunto «quel presunto tipico vizio italiano che sarebbe il voltagabbanismo/trasformismo. Vizio storico italiano ma, beninteso, degli “altri” italiani, sempre di quelli dell’altra parte, non della nostra, che invece, come si sa, è immancabilmente quella degli italiani bravi e virtuosi per definizione». Insomma, è possibile «cambiare» senza necessariamente «tradire»? La democrazia non dovrebbe essere il luogo per eccellenza della mobilità delle idee? Anche i padri della Patria, come Camillo Benso conte di Cavour, non hanno forse seguito itinerari tortuosi prima di arrivare, nel caso specifico, a un fulgido esempio di liberalismo progressista? La tesi dell’autore è questa: in politica cambiare opinione è normale, spesso necessario (senza per questo essere additati al pubblico ludibrio). L’unica condizione per un personaggio pubblico è però di ammettere che si è cambiati.
C’è un momento storico che spiega questo atteggiamento moralistico? Il capitolo «Autobiografie della nazione» andrebbe letto e riletto, riga per riga. Perché parla dei conti mai chiusi con il fascismo, della politica che stinge nella morale (e diventerà molto ambigua quando si parlerà di «questione morale» con Enrico Berlinguer), del peso della memoria e della funzione liberatrice dell’oblio. Galli della Loggia si sofferma sul caso Bobbio, quando nel dicembre del 1988 compare sulla prima pagina della «Stampa» un articolo in cui l’insigne filosofo confessa alcuni atteggiamenti «servili» tenuti durante il fascismo. Quello che colpisce non è l’onesta confessione di Bobbio quanto la reazione di alcuni suoi famosi sodali (da Alessandro Galante Garrone a Giorgio Bocca) che insultano chi tenta una qualche riflessione su quella sorprendente dichiarazione. Il passaggio dal fascismo alla democrazia è stato piuttosto caratterizzato da un trasformismo di massa e la «conversione» altro non è stata che dimenticanza (nel mio piccolo ho più volte descritto il passaggio «indolore» dalla Eiar alla Rai, con la beatificazione di quasi tutti i dirigenti storici compromessi).
È stata proprio la mancanza di un processo di autoconsapevolezza sugli errori del passato ad acuire la confusione tra politica e morale, a far considerare il cambiamento con diffidenza, a dividere il mondo tra buoni e cattivi.
Negli anni Sessanta era quasi impossibile non essere di sinistra: «Fu per l’appunto il mio caso. Il caso di chi allora diventò di sinistra quasi naturalmente: perché, guardandosi intorno, erano lì le idee che apparivano più moderne e più vive, lì soprattutto stavano le persone che incontravi e ti colpivano per la loro spregiudicatezza, la loro cultura e la loro capacità critica». Era in quell’ambito culturale che si cercavano i padri ideali, che si interpretavano i fermenti che arrivavano dall’estero, che i laici potevano avvicinarsi al mondo cattolico attraverso le «aperture» del Concilio Vaticano II. Ma era sempre in quell’ambito che si sarebbero presto sviluppati i germi dell’estremismo, le ondate di radicalismo manicheo, le pulsioni antiparlamentari dei gruppi gauchisti, le ideologie più utopiche o assassine. Anni terribili in cui bisognava avere il coraggio di cambiare idea, anche se per molti illustri maître à penser il cambiamento è avvenuto troppo tardivamente.
L’idea che mi sono fatto sui Sixties è che sono stati un periodo decisivo di storia sociale (il nascente benessere e la segregazione razziale, il sogno americano e Il giovane Holden , il dottor Spock e la gioventù bruciata) attraverso l’accumulo di sensazioni, di filmati, di spot pubblicitari, di telegiornali e soprattutto di canzoni. Le idee innovative erano nell’aria, si respiravano con entusiasmo. Poi è arrivato il Sessantotto, il tanto evocato e osannato Sessantotto, che avrebbe ucciso tutto, con la sua pesantezza ideologica, con la sua illusione di sovvertire strutture ed equilibri del capitalismo. Non dunque un punto di partenza, ma un fatale arrivo.
E poi c’è tutta la storia dell’egemonia culturale della sinistra, degli orfanelli del «Politecnico» di Vittorini, di una cultura che cercava risposte politiche alle proprie inquietudini, delle scelte di campo che talvolta obbligano alla cecità.
Rappresentando se stesso all’interno di queste narrazioni che riguardano la storia del nostro Paese, la sua identità (il compromesso storico, la Biennale del dissenso di Venezia, il rapimento di Aldo Moro, l’ascesa di Bettino Craxi, la questione morale di Berlinguer, l’avvento di Berlusconi, l’idea perduta di patria…), e sono narrazioni una più interessante dell’altra, Galli della Loggia stringe un ideale patto di lealtà conoscitiva con il lettore.
Pur esponendosi in prima persona, lo storico non è mai un semplice io, ma una specie di sistema complesso: dove si trovano molte funzioni, molte particolarità secondarie che legano rapporti reciproci e subiscono attrazioni vicendevoli, mentre ruotano attorno a un nucleo centrale.
Ma qual è questo nucleo? È l’uso della storia. Nella sua pagina più importante, quella su cui edifica tutto il libro, l’autore pone una distinzione fondamentale tra uso politico della storia e vocazione pubblica della storia: «L’uso politico è quello che non si fa scrupoli di manipolare in vario modo i fatti o loro aspetti specifici ritenuti cruciali per giudizio universale (tacendoli o distorcendoli palesemente)… la vocazione pubblica della storia, il suo uso pubblico, è invece quella caratteristica dell’indagine storica connessa al clima generale, alla temperie ideale, dell’epoca in cui l’autore vive».
Nella vita, ogni persona intelligente compie un cammino tortuoso, possibilmente di maturazione. Perciò cambia idee, si confronta continuamente con l’immagine virtuale dell’epoca, cerca di vincere l’atrofia della memoria, prende atto di quel misterioso «sentire comune» o «spirito del tempo» che la storiografia filosofica ha chiamato Zeitgeist .
E infatti le pagine più trascinanti sono quelle in cui l’autore depone per un attimo la corazza dello storico e in veste di chroniqueur traccia del suo passato, delle sue avventure esistenziali, degli incontri decisivi: l’esperienza di «Mondoperaio», gli incontri con Livio Zanetti, Lamberto Sechi, Giorgio Fattori e Claudio Rinaldi, la lunga amicizia con Paolo Mieli, l’avventura di «Pagina», lo scontro con gli einaudiani di ferro… La storia delle idee lascia il posto a immagini vive e riccamente articolate.
Oggi lo storico non ha più, come certi suoi colleghi del passato, punti fissi d’orientamento: le grandi ideologie, la divisione in classi, le organizzazioni sociali. È più solo, paradossalmente più nudo. La storia insegna, ma prima ancora segna.