lunedì 24 ottobre 2016

Corriere 24.10.16
L’invisibile confine di Cork che divide gli irlandesi
di Federico Fubini

CORK Fuori dalle mura, un biondino di quinta elementare torna da scuola barcollando su un pony quasi più basso di lui. Dentro le mura del grande impianto, sono tornate a ruotare le gru d’acciaio. Qui in cima alla collina verde di Hollyhill, la più grande azienda al mondo ha ripreso a costruire. Presto da dietro le recinzioni Apple registrerà un altro migliaio di posti di lavoro, nuovi miliardi di fatturato.
Nella prima età industriale, queste contrade di campagna intorno a Cork venivano chiamate le vie del burro, perché la produzione era così abbondante che il prezzo mondiale del primo derivato del latte si fissava nel porto della città. Oggi l’area spicca nell’economia globale per un altro numero: 0,005%. È la percentuale che il gruppo californiano avrebbe pagato in imposte per il 2014 sul totale dei suoi ricavi europei, grazie a un accordo con il governo irlandese. Almeno così sostiene la Commissione europea, che chiede al gruppo di versare al governo irlandese 13 miliardi in tasse non pagate.
Fa parte dell’iconografia locale la foto di un venticinquenne Steve Jobs in visita a Cork nella sua prima fabbrica di personal computer fuori dagli Stati Uniti. Era il 1980. Allora Apple in questa periferia colpita dal declino industriale aveva già creato sessanta posti. Oggi ne ha quasi seimila, ma non fa ancora parte dell’iconografia cittadina un’altra immagine altrettanto rivelatrice dei tempi che corrono. Sono quei cartelli alle finestre delle piccole case a un piano poco lontane dallo sterminato muro di cinta: «No Consent. No Contract. No Water Price».
È la protesta della gente comune per il prezzo dell’acqua a Knocknaheeny, il distretto elettorale a ridosso degli stabilimenti Apple. Qui come altrove in Irlanda, gli abitanti incollano cartelli alla finestra per avvertire che non apriranno la porta alla lettura dei contatori. Non intendono pagare le bollette. A un costo annuo di 250- 400 euro, l’acqua incide sul reddito medio di una famiglia a Knocknaheeny più di quanto pesi su tutte le entrate europee di Apple l’intera imposta definita e pagabile in Irlanda per il gruppo californiano. Potrebbe essere non molto diverso per le altre multinazionali che fanno della piccola Cork una meta più ricercata di tutta l’Italia messa insieme per i grandi investitori diretti esteri. Nei parchi industriali di questa piccola città di provincia si leggono le insegne di Amazon, Dell, Boston Scientific, Pepsico, Novartis, Qualcomm e altri 150 grandi gruppi.
La massa di denaro, tecnologie, conoscenze e posti di lavoro di qualità che affluisce in questa città a tassazione minima per i grandi gruppi è tale che, in fondo, il muro di Cork non è solo quello che separa Apple dagli abitanti di Knocknaheeny. Ce n’è anche un altro, intangibile ma non meno facile da scavalcare. È il muro che divide Cork a causa di quei 13 miliardi di tasse non pagate. Chi è riuscito a costruirsi un’istruzione e un curriculum che permetta di trovare lavoro e prosperare grazie agli investimenti esteri, come Conor Healy della Camera di commercio di Cork, vuole che il governo di Dublino continui con la posizione che ha preso: «È stato giusto fare appello contro la decisione di Bruxelles e non permettere che Apple ci paghi quei 13 miliardi, perché condizioni fiscali competitive ci aiutano a crescere».
Poi però ci sono gli altri abitanti, quelli dall’altra parte del muro con i cartelli alle finestre. Gente come quella di Knocknaheeny, dove i laureati sono il 4,7% della popolazione (contro il 24% della media irlandese), la disoccupazione resta intorno al 20% e metà delle famiglie con figli è composta da padri o madri single. Questi invece vogliono che l’Irlanda si faccia pagare quei 13 miliardi, una somma che da sola vale dieci volte l’intera manovra appena varata dal governo e sistemerebbe l’assistenza sociale nel Paese. «È profondamente ingiusto che ad Apple sia permesso di pagare appena lo 0,005% quando tanta gente in città ha bisogno d’aiuto», dice l’assistente sociale Siobhan O’ Dowd, che non può fare a meno di vedere a cosa servirebbero quei 13 miliardi: costruire case.
Solo nell’ultimo anno l’afflusso di persone ad alta qualifica e alti salari da tutto il mondo nelle multinazionali basate a Cork ha spinto al rialzo gli affitti di quasi un quinto. I nativi dall’altra parte di questo muro di conoscenza e di redditi sempre più spesso restano senza abitazione, al punto che la lista d’attesa per le case popolari è ormai di seimila unità in un comune di 120 mila abitanti. Contribuiscono i postumi della Grande recessione, perché la bad bank di Stato (Nama) sta cedendo pacchetti di mutui in default ai grandi fondi americani come Cerberus, Lone Star o Apollo che tutti qui chiamano «avvoltoi» perché espellono le famiglie per venderle. «È un crimine e una rapina» secondo Andrew Moore, un mediatore immobiliare del posto. Secondo altri è il solo modo in cui l’Irlanda può riprendere a crescere dopo la grande recessione: facendo, a occhi asciutti, vincenti e perdenti dalle due parti del muro di Cork.