Corriere 20.10.16
Tensione tra Roma e l’Ue Faccia a faccia Renzi-Juncker
di Federico Fubini
Jean-Claude
Juncker e Matteo Renzi troveranno un attimo per parlarsi faccia a
faccia oggi o domani a Bruxelles, e sarà probabilmente un lungo attimo.
Fra il presidente della Commissione europea e il premier italiano sta
montando un coacervo quasi inestricabile di problemi finanziari,
questioni legali, dilemmi politici su scala nazionale e europea, e
tensioni dentro e attorno alla Commissione Ue. In una pausa del vertice
di oggi e domani, Juncker chiederà a Renzi che l’Italia accetti uno
sforzo in più per evitare nel 2017 un peggioramento troppo drastico del
suo deficit «strutturale», quello calcolato al netto delle entrate
fiscali passeggere e dei danni prodotti da una ripresa di fatto assente.
Ma
se il premier rifiuterà, per la Commissione Ue resteranno poche ore per
prendere una decisione scomoda: scegliere se mandare entro lunedì (o
martedì) una prima lettera ufficiale a Roma che chiede chiarimenti e
tiene aperta l’opzione di approvare, dopo un’altra settimana, un atto
ufficiale con il quale Bruxelles respinge la bozza di legge di Stabilità
e impone al governo di rimandarne una migliore. Non siamo ancora a
questo punto. Né esiste alcun automatismo, anche se una prima lettera di
richieste di chiarimento partisse per l’Italia all’inizio della
settimana prossima. Soprattutto, Juncker e il suo commissario agli
Affari economici, Pierre Moscovici, restano convinti che sia giusto fare
il possibile – senza perdere la faccia – per aiutare Renzi a navigare
le acque che lo separano dal referendum costituzionale del 4 dicembre.
Il
premier italiano capisce che molti a Bruxelles vorrebbero evitare uno
strappo, e ci scommette con forza. Ma la matassa stavolta è davvero dura
da sbrogliare, in primo luogo a causa dei contenuti della legge di
Stabilità appena varata. Il problema più evidente è che quel bilancio
non sembra in grado di ridurre il deficit «strutturale» dell’Italia
neppure secondo la più radicalmente elastica delle interpretazioni,
quella che proprio il governo di Roma propone. La manovra non basterebbe
a ridurre il deficit strutturale neanche se si eliminasse dal calcolo
del disavanzo (come se alla fine nessuno dovesse pagare) l’intero
ammontare che da spendere per l’emergenza migratoria nel 2017, e non
solo le somme in più rispetto all’anno prima. Né basterebbe a ridurre il
deficit strutturale far sparire dalle stime anche l’intero costo della
ricostruzione dopo il terremoto in Umbria e Lazio, più tutte le spese da
sostenere nel resto del Paese per mettere in sicurezza immobili e
infrastrutture.
Queste due voci — l’intera spesa per i migranti
più l’intera spesa di ricostruzione e prevenzione anti-sismica — costano
6 o 7 miliardi e sono pari allo 0,4% del reddito nazionale (Pil). Anche
scomputandole, lo zoccolo di deficit di fondo nel bilancio pubblico
italiano non diminuirebbe, come invece è richiesto ogni anno ai Paesi
molto indebitati. In base agli accordi di appena sei mesi fa, con questa
legge di bilancio l’Italia dovrebbe ridurre di almeno di 1,6 miliardi
(0,1% del Pil) il disavanzo «strutturale». Nella Commissione Ue, tanto
nell’ufficio del presidente Juncker che in quelli dei suoi due
commissari economici Valdis Dombrovskis e Pierre Moscovici, restano
dubbi profondi sul fatto che il governo Renzi abbia diritto a scomputare
davvero dal deficit tutte le spese legate al terremoto e tutte quelle
legate alle migrazioni. A Bruxelles si pensa che si possano trattare in
maniera differenziata i costi di ricostruzione in senso stretto, e
quelli supplementari rispetto agli anni scorsi per gestire i migranti.
Solo queste voci sarebbero «eccezionali». A Bruxelles il resto delle
spese di messa in sicurezza e gestione delle richieste di asilo appare
potenzialmente costante negli anni, dunque andrebbe calcolato e fa
aumentare il deficit a tutti gli effetti. In più, in Commissione Ue c’è
forte perplessità per il fatto che molta spesa pubblica dell’Italia sia
coperta con entrate discutibili e transitorie come quelle da sanatorie
fiscali, o da stime sempre incerte di lotta all’evasione.
Se suona
come una disputa bizantina, forse è perché in parte lo è. Ma nasconde
problemi reali. Juncker e i suoi si sentono stretti fra forze
inconciliabili e le loro opzioni appaiono tutte scomode. Se dessero
ancora disco verde al debito e deficit crescenti dell’Italia,
legittimerebbero involontariamente la proposta di Berlino di spostare la
vigilanza sui bilanci dell’area euro al fondo salvataggi (Esm) perché
la Commissione Ue non riesce a farsi rispettare. Se invece respingessero
la manovra di Roma o raccomandassero una procedura contro il governo,
otterrebbero un doppio effetto indesiderato: un potenziale danno alla
campagna referendaria di Renzi e un attacco contro «Bruxelles» da parte
di quest’ultimo, che rischia di portare l’Italia su posizioni sempre più
anti-europee.
Tutti concordano che un compromesso è necessario,
nessuno sa se sia possibile. Il governo italiano adesso ha iniziato a
sostenere che non dovrebbe essere obbligato a ridurre il deficit
«strutturale» nel 2017 — in base alle regole — perché la crescita del
Paese è ancora molto al di sotto del suo potenziale. In realtà la stima
per l’anno prossimo (più 1%) è addirittura doppia rispetto alla crescita
media dell’ultimo ventennio. Ma ormai la logica economica è l’ultimo
fattore in gioco, in questa sciarada estenuante per i politici e i loro
sherpa ma a stento seguita dai grandi investitori sui mercati. Loro si
fidano che il debito di Roma non crolli solo finché la Banca d’Italia
continuerà a sostenerlo comprandone dieci miliardi al mese su mandato
della Banca centrale europea. Ma non un giorno di più.