mercoledì 19 ottobre 2016

Corriere 19.10.16
I numeri fragili del lavoro
di Dario Di Vico

A veva ragione la Banca d’Italia pochi giorni fa a sostenere, nel suo bollettino economico, che l’occupazione dei dipendenti è tornata ai livelli pre Crisi (2008) oppure bisogna dar per buono il quadro tracciato ieri dall’Inps che indica un 2016 horribilis per la creazione di nuovi posti di lavoro? La domanda è legittima e molti lettori se la porranno. La risposta purtroppo è complessa e rimanda alle diverse metodologie seguite dalle varie «agenzie».     Via Nazionale considera e somma nei suoi dati anche il lavoro irregolare degli immigrati, l’Inps fornisce dati di flusso sui nuovi contratti accesi. Ricordiamo poi che l’Istat procede monitorando lo stock di occupazione. Il risultato è un puzzle di numeri difficilmente decifrabile che chiama i comunicatori a esercitare un ruolo che — per usare la terminologia Rai — è di «servizio pubblico». Nel piccolo cerchiamo di evitare che il cittadino comune, leggendo i responsi delle agenzie istituzionali, si ritragga confuso e che gli stessi numeri accrescano i decibel di una lotta politica, come quella italiana, già vocata alla rissa.
Tolto a Cesare ciò chegli va tolto, è giusto però concentrarsi sui dati dell’Osservatorio sul precariato dell’Inps e cercare di trovare il bandolo della matassa .
La sostanza è che l’occupazione è cresciuta con una certa intensità nel 2015 per effetto dei generosi incentivi governativi che hanno fortemente sostenuto «il ciclo» ovvero una ritrovata propensione delle imprese a stabilizzare la forza lavoro che prima veniva utilizzata usando tutti gli strumenti della flessibilità. Quando però gli incentivi sono stati ridotti — proprio perché costosi — la tendenza a stipulare contratti a tempo indeterminato si è ridotta e di molto, come ci dicono i dati di ieri. Le aziende non hanno trovato più convenienza e hanno frenato anche perché nel frattempo sono aumentati gli elementi di incertezza riguardanti sia la stabilità politica italiana sia l’andamento del commercio internazionale. Di fronte a queste due novità il Jobs act è come se fosse rimasto all’improvviso nudo, dimostrando così tutte le sue fragilità.
Ci è capitato già di dire che alla ripresa dopo le ferie si notava tra gli imprenditori qualche elemento di rassegnazione, mitigato in parte da alcune assemblee confindustriali (Bergamo e Milano) che hanno vantato la forza dei rispettivi territori e dall’annuncio del Piano Industria 4.0. Ma è chiaro che in questo momento le imprese non stanno pensando ad assumere o comunque a stabilizzare il lavoro intermittente. I dati dell’Inps lo spiegano dove segnalano la secca riduzione del flusso di contratti a tempo indeterminato. Molto dipenderà dall’impatto che la legge di Bilancio avrà sul mood degli imprenditori e dagli sviluppi internazionali, certo è che gli incentivi per l’occupazione dimostrano tutta la debolezza della «politica economica per bonus», che il premier Matteo Renzi ha difeso ancora nell’ultima conferenza stampa di sabato 15.
Cosa può fare nel frattempo il Jobs act per evitare di apparire impotente? Può affrontare con maggior vigore la concretizzazione delle politiche attive del lavoro che, in assenza di incentivi molto generosi, rappresentano l’arma più giusta. Sappiamo che le nostre carenze in questo campo risalgono alla notte dei tempi e che ci siamo acconciati pro bono pacis a considerare l’esperienza di Garanzia Giovani un primo test di funzionamento, laddove purtroppo è stato un mezzo flop. Ma comunque è da questo test che bisogna ripartire e occorre farlo con il massimo della responsabilità pubblica. Una campagna di rilancio di una politica attiva che tocchi le famiglie e i giovani può servire a ricucire un rapporto lacerato. Lo stesso ragionamento è valido per i nuovi strumenti di ricollocazione che diventano ancora più necessari adesso che il flusso della flessibilità in uscita (licenziamenti per giusta causa) è, in virtù delle norme previste dal Jobs act, più sostenuto che negli anni passati. Se poi nel frattempo Istat, Inps e Banca d’Italia volessero unificare le metodologie di monitoraggio del mercato del lavoro — come annunciato ancora una volta l’altro ieri dal presidente Istat, Giorgio Alleva — non potremmo che gioirne.