Corriere 18.10.16
Mario Monti
«Perché voterò contro la riforma»
intervista di Federico Fubini
Mario
Monti annuncia il voto contrario al referendum sulla riforma
costituzionale. «Gli elettori di fatto decideranno di una grande
questione: non la sorte del governo o del presidente del Consiglio o del
segretario del Pd — spiega l’ex premier in un’intervista al Corriere —
ma qualcosa di più fondamentale e durevole, il metodo di governo
dell’economia e della società italiana. Questo dipende dalla
Costituzione, ma anche da un insieme di prassi e metodi dei quali la
Costituzione stessa è solo l’ossatura».
Il senatore Mario Monti,
l’ex premier ed ex commissario Ue, tuttora uno degli italiani più
ascoltati nelle grandi capitali, ci ha pensato a lungo. Non è stato
facile per lui decidere come votare nel referendum.
Lei frequenta
molto istituzioni e cancellerie europee. Non trova che fra i partner ci
siano reali preoccupazioni nel caso vincesse il No?
«Questo mi
ricorda le apprensioni che tanti capi di governo manifestavano a me sul
finire del 2012 di fronte alla grande incertezza delle elezioni. Li ho
sempre tranquillizzati, dicendo che l’Italia è un Paese affidabile e che
le politiche necessarie per il Paese sarebbero continuate. La stessa
cosa penso e dico oggi all’estero. E vorrei dirlo anche agli italiani:
diamo il voto secondo coscienza. Se vincesse il No non sparirebbero gli
investitori esteri. Se vincesse il Sì non sparirebbe ogni democrazia. E
la Ue, che peraltro non ha mai chiesto questa modifica della
Costituzione, può stare tranquilla. L’Italia non rischia, come cinque
anni fa, di cadere e di travolgere l’euro».
Non si entrerebbe in una fase di instabilità?
«Non
vedo ragioni per cui Matteo Renzi dovrebbe lasciare in caso di una
vittoria del No, come sostengono molti sostenitori del No e aveva
affermato all’inizio lo stesso premier. Se tuttavia dovesse lasciare,
non vedo particolari sconvolgimenti. Toccherà al capo dello Stato
decidere, ma sarebbe facilmente immaginabile una sostanziale
continuazione dell’assetto di governo attuale con un altro premier parte
della maggioranza».
Lei ha votato per questo impianto di riforma costituzionale almeno una volta in Senato.
«Ho votato Sì in prima lettura nell’agosto del 2014, poi in seconda e terza lettura ero assente per impegni europei».
Perché votò Sì nel 2014?
«Consideravo
essenziale non indebolire la corsa di Renzi sulle riforme economiche.
Perciò votai Sì, pur avendo varie riserve. Di questa riforma mi hanno
sempre convinto la modifica del rapporto fra Stato e Regioni,
l’abolizione del Cnel e la fine del bicameralismo perfetto. Non mi
convince un Senato così ambiguamente snaturato, nella composizione e
nelle funzioni. Meglio sarebbe stato abolirlo».
Altri fattori che la convincono dell’impianto della riforma?
«Ci
possono essere risparmi nel costo della politica in senso stretto, ma
il vero costo della politica non è quello dei senatori. È nel combinato
disposto fra la Costituzione, attuale o futura, e metodo di governo con
il quale si è lubrificata da tre anni l’opinione pubblica con bonus
fiscali, elargizioni mirate o altra spesa pubblica perché accettasse
questo. Ho riflettuto a lungo in proposito».
Cosa ne ha concluso?
«Che
votare Sì al referendum significherebbe votare Sì al tenere gli
italiani dipendenti da questo tipo di provvidenza dello Stato. Sarebbe
un Sì a non mantenere con loro un rapporto da cittadini adulti o maturi
nei confronti dello Stato. Da trent’anni mi occupo di metodi di governo,
in particolare dell’economia. Quando ne ho avuto l’occasione ho cercato
di migliorarli, in Europa e in Italia. Nel nostro Paese l’ho fatto
dalle colonne di questo giornale, contribuendo a un lento ma continuo
miglioramento dagli anni 90, spinto anche dall’Europa, e poi nel breve
periodo della mia esperienza di governo. Partendo da queste premesse,
molto diverse da tante altre voci che si sono espresse per il No, a me
risulta impossibile dare il mio voto a una Costituzione che contiene
alcune cose positive e altre negative, ma che — per essere varata —
sembra avere richiesto una ripresa in grande stile di quel metodo di
governo che a mio giudizio è il vero responsabile dei mali più gravi
dell’Italia: evasione fiscale, corruzione, altissimo debito pubblico».
Insomma il suo è un No anche se in parte apprezza il merito della riforma costituzionale ?
«Dire
che una parziale modifica della Costituzione, conseguita in un modo
così costoso per il bilancio pubblico, sarà molto benefica per la
crescita economica e sociale dell’Italia, è una valutazione che non
posso accettare. Se prevarrà il Sì avremo una Costituzione riformata,
forse leggermente migliore della precedente, ma avremo con essa
l’approvazione degli italiani a un modo di governare le risorse
pubbliche che pensavo il governo Renzi avrebbe abbandonato per sempre,
come ha fatto meritoriamente con gli eccessi della concertazione tra
governo e parti sociali. Speravo che fosse arrivato il momento in cui
gli italiani potessero essere e sentirsi adulti, non guidati dalla mano
visibile del potere politico».
Insomma, è il modo con cui il premier cerca consenso attorno al Sì che la spinge al No?
«Esatto.
Non avrebbe senso darsi una Costituzione nuova, se essa deve segnare il
trionfo di tecniche di generazione del consenso che più vecchie non si
può. Peraltro trovo negativo avere tenuto in piedi con l’uso del denaro
pubblico queste deformazioni del rapporto degli italiani con la classe
politica. Questo problema rischia solo di essere accresciuto portando
alla ribalta la classe politica regionale nel nuovo Senato».
Ma non è necessario per chiunque coltivare il consenso anche con il bilancio dello Stato?
«È
la via più facile. Ma se il Paese, poco alla volta, cresce in
consapevolezza, non è detto che sia così per sempre. Dopo tutto, alle
elezioni del 2013 il movimento che si riconosceva nell’opera del mio
“austero” governo ottenne, partendo da zero e senza un partito alle
spalle, 2.800.000 voti, cioè più dei 2.400.000 voti che alle Europee del
2014 Renzi, in quello che venne considerato un trionfo, riuscì ad
aggiungere ai voti che il Pd di Bersani aveva avuto nel 2013».
Sulla legge elettorale, che pensa del modello originario di Renzi?
«
A sentire alcuni ormai sembra improponibile qualunque sistema in cui
non si conosce il vincitore la sera stessa. Eppure in Germania non solo
non lo si conosce la domenica sera, ma a volte bisogna aspettare mesi.
Eppure poi si arriva a un programma chiaro, ben definito e tale da
limitare patti fra arcangeli o nazareni. Per quanto mi riguarda mi sono
gradualmente convinto sempre più che i problemi dell’Italia non
dipendono tanto dalla forma costituzionale e dalla legge elettorale, ma
alcuni connotati fondamentali: l’evasione, la corruzione e una classe
politica che usa il denaro degli italiani di domani come una barriera
contro la propria impopolarità».