Il Sole 18.10.16
Il governo di scopo e gli scenari del dopo che imbarazzano il fronte del «no»
di Lina Palmerini
Nessun
governo di scopo se Renzi perde il referendum. Ma il premier deve
lasciare e una nuova legge elettorale è necessaria. Le condizioni che
ieri dettava Di Maio non chiariscono un punto “aperto”della partita
referendaria: cosa succede dopo? Chi governa mentre il Parlamento
riscrive l’Italicum?
Ieri Luigi Di Maio ha avuto modo di spiegare a
più riprese il suo scenario del “dopo”. Secondo lui, in caso di
vittoria del “no”, il premier deve dimettersi ma non se ne deve andare.
Nel suo schema «ci sarà un governo per gli affari correnti in carica,
che sarà di Renzi, si modifica l’Italicum e poi si va a votare». Come si
dice, fa i conti senza l’oste. Senza il Quirinale, a cui compete la
scelta, e senza il premier che dovrebbe accettare di restare dov’è -dopo
una sconfitta popolare pesantissima - solo perché fa comodo ai 5
Stelle. L’impianto di Di Maio, insomma, è molto fragile ma ha una
ragione: l’imbarazzo ad aprire la strada a un Esecutivo non eletto dagli
italiani. Questo è il punto. Che il leader del Movimento non nega, anzi
lo ammette. «Il rischio – ha detto – è che si faccia un altro governo
di scopo che in realtà comincerà a fare altre leggi oltre quella
elettorale che non erano nel programma». Per una forza politica che si è
sempre richiamata alla volontà popolare, questo effetto collaterale del
“no” crea più di un disagio.
Lo dimostra anche il modo in cui fu
bloccato Alessandro Di Battista un mese fa. Nella trasmissione
televisiva Otto e mezzo, aveva detto: per me, si può votare anche nel
2018, trovare un altro premier e un governo di scopo e fare quindi la
legge elettorale. Tempo qualche ora e fu subito smentito da Di Maio che
ieri si arrampicava su un Renzi dimissionario ma ancora in carica. E lo
stesso disagio si sente anche nelle altre opposizioni. In Silvio
Berlusconi, per esempio. Qualche giorno fa, nella sua prima uscita a
favore del “no”, ha ripetuto che è contrario a governi che non siano
passati per il voto degli italiani. Una posizione da campagna
elettorale, per allontanare da sé l’ombra degli inciuci e di un ritorno a
braccetto con il Pd dopo la rottura ma che elude del tutto il tema.
C’è
insomma un “non detto” che tiene in sospeso lo schieramento contrario
alla riforma e che avvantaggia chi sostiene la tesi del “giorno del
giudizio”. Se è vero che Renzi e i sostenitori del “sì” fanno propaganda
agitando lo spettro del caos istituzionale e politico, dall’altra parte
non c’è ancora chi ha smontato pienamente questa tesi. Rispondere che
il premier deve restare dov’è, pur dimissionario, o che non deve
dimettersi – come dicono i sostenitori del “no” del Pd – non è una
soluzione ma solo un modo per evitare di spiegare cosa succede se
davvero Renzi lascia. Questo è il tema scomodo. Non c’è l’exit strategy
delle urne perché l’Italicum, senza la riforma costituzionale, sarebbe
da riscrivere e dunque si dovrà necessariamente trovare un modo per
continuare la legislatura. Con quale governo? E, soprattutto, sostenuto
da quali forze politiche in Parlamento? Mettere sul tavolo ipotesi più
realistiche sul dopo, dire agli elettori cosa possono aspettarsi, anche
questa è una questione di trasparenza. Ieri Di Maio è stato investito
dalla polemica sulle spese - 100mila euro fatte in tre anni - ma la
trasparenza in politica non può riguardare solo scontrini e rimborsi.