Corriere 17.10.16
Lo spreco delle due Soprintendenze che si contendono i tesori di Roma
di Sergio Rizzo
Da
novantuno anni, a Roma, ci sono i Fori Imperiali di destra e i Fori
Imperiali di sinistra. Ma niente a che vedere con la politica. Il fatto è
che dal 1925, un anno dopo l’avvio del progetto fascista di radere al
suolo il quartiere Alessandrino per far posto alla via dell’Impero,
l’immenso patrimonio archeologico della Capitale ha due padroni.
Un
pezzo ce l’ha lo Stato e un pezzo il Comune. La fetta più grossa dei
Fori, quella a sinistra della via che attraversa l’area andando dal
Colosseo a piazza Venezia, è di proprietà statale. Mentre la fettina che
sta a destra è comunale. E il Colosseo? È dello Stato, ma il selciato
romano intorno è del Comune. E la Domus Aurea, la strepitosa villa dei
giochi di Nerone? Statale anch’essa. Però i resti delle terme fatte
edificare dall’imperatore Traiano sopra la villa sono comunali. Come il
mausoleo di Augusto. Invece le Terme di Caracalla sono dello Stato.
Un’assurda
sovrapposizione, estesa su tutta la città. Ragion per cui a Roma, da
sempre, esistono due Soprintendenze: quella dello Stato, che fino a poco
tempo fare era divisa in due fra archeologica e architettonica, e
quella del Campidoglio. Due eserciti sterminati: la Soprintendenza
capitolina ha più di 400 persone e quella nazionale viaggia sulle 700.
Ma non sempre schierate sullo stesso fronte.
Lasciamo immaginare
che cosa possa significare in una situazione nella quale è già
complicato che un’amministrazione si metta d’accordo con se stessa. I
casi in cui si pestano i piedi le due Soprintendenze, che sulla carta
avrebbero pure compiti diversi (alla nazionale la tutela, alla
capitolina la valorizzazione e la gestione), sono all’ordine del giorno.
Ne sa qualcosa, per esempio, chi è alle prese con la ristrutturazione
del grande palazzo di Fendi a picco sull’arco di Giano al Velabro, che
dovrebbe diventare un centro per le arti. Mentre la sola decisione di
dove mettere la biglietteria di quella parte del Circo Massimo
visitabile a pagamento ha fatto discutere per un anno e mezzo.
Va
da sé che la cosa più sensata sarebbe quella di fondere le due
strutture, ovviamente in quella nazionale. Ma qui il buonsenso si
scontra sempre con il nonsenso. E ha quasi sempre la peggio. Il fatto è
che una Soprintendenza unica presupporrebbe un unico padrone. Il che,
dicono, non è praticabile: per cedere il proprio patrimonio al demanio
statale, il Comune dovrebbe ricevere dei soldi in cambio. Svariati
miliardi. Qualcuno aveva anche ipotizzato, in passato, che lo Stato si
accollasse i debiti del Campidoglio. Un’ipotesi, appunto. Quindi
irrealizzabile.
Finché un bel giorno il ministro dei Beni
culturali Dario Franceschini e il sindaco di Roma Ignazio Marino hanno
un’idea. Creare un consorzio fra le due Soprintendenze, almeno per un
pezzo del patrimonio, dai Fori alla Domus Aurea. Il progetto viene
presentato il 21 aprile 2015: giorno simbolico, perché anniversario del
Natale di Roma. Deve essere una mossa per sperimentare finalmente
l’unità d’intenti, ma subito le cose non filano lisce. Prima le
discussioni sulle quote del consorzio: quanto al Comune e quanto allo
Stato? Poi gli equilibri di potere: se il presidente spetta alla
Soprintendenza nazionale, perché quella capitolina non può esprimere il
direttore generale? Le trattative durano mesi, ma quando si arriva al
dunque ecco le dimissioni di Marino. E il consorzio finisce su un
binario morto. Il commissario straordinario Francesco Paolo Tronca ha
ben altre rogne, e si deve occupare dell’ordinaria amministrazione. Né
la sindaca Virginia Raggi si adopera per sbloccare la situazione.
Gli
accordi fra Marino e Franceschini prevedono la data limite del 31
dicembre 2015 per l’approvazione dello statuto. Siamo oltre metà di
ottobre 2016 e non c’è una riga. Segno evidente che il progetto si può
considerare morto e sepolto. Qualcuno potrà giudicarlo perfino un bene.
Il consorzio avrebbe forse finito per rappresentare addirittura una
terza Soprintendenza. Follia bis.
Non che quello che sta
accadendo, in ogni caso, sia accettabile. In un Paese serio le cose non
sarebbero andate così. Questo inconcepibile dualismo non ci sarebbe mai
stato. E in caso contrario l’avrebbero curato da un pezzo.