Corriere 17.10.16
La Cina da noi: giovani e imprese il doppio modello Milano-Prato
Dubbi a Prato, euforia a Milano
La procura Toscana: qui va arginata l’illegalità. Gli assessori di Sala corteggiano Associna
di Dario Di Vico
Due
realtà, due mondi diversi a meno di 300 chilometri. Prato e Milano. Nel
comune Toscano la presenza dei cinesi è considerata ancora un problema.
Nel capoluogo lombardo invece è una soluzione. Anche il modo di
auto-organizzazione è profondamente diverso. A Prato è nata
l’associazione «Cervo Bianco» che però genera molte diffidenze in città.
A Milano le seconde generazioni di immigrati si sono coagulate intorno
ad Associna e hanno ricevuto in questi giorni significativi
riconoscimenti delle autorità cittadine, del consolato cinese e delle
università.
A Prato i cinesi sono considerati ancora un problema, a
Milano invece una soluzione. La presenza di Pechino nell’economia
europea è crescente e l’Italia ne rappresenta un tassello importante.
Non abbiamo avuto ancora investimenti importanti nelle nostre
infrastrutture come il verbo della «Nuova via della Seta» richiede (in
Grecia si è concretizzato con l’acquisizione del porto del Pireo) ma le
manovre cinesi sono avvolgenti. Da una parte infatti le loro produzioni
di fascia bassa (casalinghi, giocattoli e altro) hanno messo fuori gioco
un pezzo significativo del nostro sistema di piccole imprese,
dall’altra il mega-affare Pirelli e le acquisizioni di Inter e Milan
segnalano l’aumentato interesse per la piazza milanese.
È
interessante annotare come anche sul piano dell’auto-organizzazione le
due comunità cinesi divergano: a Prato è nata un’associazione chiamata
Cervo bianco capeggiata da Stefano Jiang e che però genera molte
diffidenze in città, a Milano invece le seconde generazioni di immigrati
si sono strette attorno ad Associna e hanno ricevuto proprio in questi
giorni significativi riconoscimenti da parte delle autorità cittadine,
del consolato cinese e delle università.
Giovedì 13 ottobre nel
corso di un dibattito cittadino il sostituto procuratore di Prato
Antonio Sangermano ha snocciolato pubblicamente i dati della repressione
delle attività economiche illegali e i numeri invitano a un’attenta
riflessione. Negli ultimi due anni sono state controllate 6.430 imprese
cinesi: il 63% non è stato trovato in regola e ne sono state chiuse 388.
Nello stesso periodo su 3.400 procedimenti per violazione della
sicurezza sul lavoro ben 2.700 hanno riguardato imprese cinesi che hanno
pagato la multa ma subito dopo hanno dato vita a nuove violazioni. «Le
multe sono diventate un mero rischio d’impresa e non generano alcuna
introiezione del valore della legalità» commenta lo stesso Sangermano.
Non va dimenticato che Prato ha caratteristiche quasi uniche in Europa
visto che a fronte di 192 mila abitanti ci sono 27 mila permessi di
soggiorno rilasciati ai cinesi, si stima una popolazione irregolare di
13 mila unità. «Certo, i cinesi fanno parte della realtà di Prato e non
possono essere certo deportati, c’è bisogno dunque di un dialogo tra
classi dirigenti e da parte italiana occorre immaginare un modello di
sviluppo che li includa e che sappia tenere insieme repressione e
responsabilizzazione» spiega il magistrato.
L’operazione è
tutt’altro che facile e in Procura a Prato sono i primi a saperlo perché
il modello di business che ha fatto le fortune dei capannoni cinesi si
basa su un pronto moda che finisce nei mercatini del Sud Italia e nei
negozi polacchi, ucraini e slovacchi ed è fondato sull’assenza di
diritti, sull’estraneità totale alla cultura sindacale e su un regime di
illegalità strutturale. Non è un caso che le buone intenzioni che
alcuni imprenditori cinesi come Gabriele Zhang, raggruppati
nell’associazione dell’Amicizia, avevano esposto nei giorni successivi
al tragico rogo del dicembre 2013 (sette operai asiatici morti) non sono
diventate realtà.
Il sogno che le produzioni cinesi, anche grazie
al contributo della cultura industriale pratese, potesse salire di
gamma, bonificare l’illegalità e addirittura entrare nelle grandi catene
spagnole e svedesi dell’abbigliamento (Zara e H&M) è rimasto
tale. Grazie all’utilizzo selvaggio della manodopera i cinesi di Prato
hanno evitato di pagare prezzi eccessivi alla Grande Crisi ma nel
frattempo è successo poco altro. Anzi si è sviluppata in città
l’attività dell’associazione del Cervo bianco nata per difendere i
cinesi — che portano con sé forti somme in contanti — dalle continue
rapine portate a termine da maghrebini e albanesi anch’essi immigrati
sulle rive del Bisenzio.
Il Cervo bianco ha organizzato prima una
grossa manifestazione in città e poi ha dato vita a una sorta di Volante
Rossa anti-scippi, però quando si è interessata di lavoro lo ha fatto
difendendo l’abusivismo e anzi, nel vicino comune di Sesto Fiorentino,
dando vita a una piccola sommossa contro la polizia e i controlli
regionali. «Sono convinto che il futuro di Prato passi da un dialogo con
i cinesi, oggi però non si sa con chi parlare e spesso si sbagliano gli
interlocutori» racconta Edoardo Nesi, scrittore e deputato, che spiega
anche come nei giorni in cui riapre il museo Pecci la città debba
giustamente recuperare il suo orgoglio ma al tempo stesso «ascoltare il
grido di dolore dei magistrati che oltre all’illegalità cinese segnalano
la presenza di una sorta di hub toscano della droga gestito da
nigeriani e romeni». È lo stesso Nesi a evidenziare la palese
contraddizione di una Prato che alla fine si duole della presenza cinese
e di una Milano che invece «li corteggia».
Del resto bastava
essere presenti sabato 15 all’assemblea dei giovani di Associna, indetta
proprio sui temi dell’economia, per annotare la presenza di ben due
assessori della giunta Sala, Carmela Rozza (sicurezza) e Cristina Tajani
(attività produttive), che hanno salutato un giovane carabiniere di
origine cinese presente nelle prime file e hanno auspicato che anche tra
i vigili urbani possano esserci giovani di seconda generazione. Tajani
ha aggiunto che è proprio il tasso di nuove attività cinesi che sostiene
la crescita delle imprese a Milano, «altrimenti avremmo un saldo
negativo». L’assessore ha ricordato le collaborazioni italo-cinesi nel
campo del design e della moda ovvero come gli italiani della Federlegno
stiano per inaugurare il Salone del Mobile di Shanghai e come per la
prima volta nel calendario delle sfilate della moda milanese sia stato
ospitato un marchio cinese. I giovani di Associna hanno avuto anche
l’investitura delle loro autorità visto che il console a Milano, Meng,
li ha battezzati come «la nuova componente importante della comunità
cinese» e secondo il sociologo Daniele Cologna rappresentano «uno
squillo di tromba per l’intera società italiana», sono ben inseriti
nelle nostre scuole e le loro imprese si occupano di «mercati
dimenticati».
I giovani cinesi nati in Italia e bilingui sono
molto ricercati dalle aziende di Pechino che vogliono investire da noi e
dalla multinazionali tascabili del made in Italy che vogliono
conquistare il mercato asiatico e almeno due volte l’anno proprio a
Milano la Fondazione Italia-Cina organizza un career day che serve a far
incontrare offerta e domanda di lavoro. Anche i giovani imprenditori
non sono da meno e nel marzo scorso Hujian Zhou ha vinto il primo premio
del concorso Gambero Rosso per lo street food lombardo con la sua
Ravioleria di via Sarpi, nel cuore della storica Chinatown milanese.
Sulla piazza di Milano quindi i cinesi non arrivano solo con le
acquisizioni top down (Pirelli e Inter) ma si inseriscono sempre di più
nella società economica e non solo vendendo prodotti da un euro o con i
parrucchieri da 6 euro. Ma l’Italia riuscirà a trovare una sintesi tra i
problemi di Prato — e di altri territori zeppi di Pmi come il Nordest —
e le ambizioni di Milano? Per ora evidentemente no, ma il consiglio
(non richiesto) è di non sottovalutare cosa avviene in provincia. La
pancia del Paese, sulla Cina, non la pensa come i cosmopoliti.