Corriere 16.10.16
La versione di Picasso, nella tradizione cercava l’atipicità
Così nacquero le sue figure stravolte
di Roberta Scorranese
Nel
film Midnight in Paris di Woody Allen (2011) lo scrittore in crisi Gil
Pender si ritrova catapultato nella capitale francese di 90 anni prima,
in quella stagione irripetibile degli anni Venti in cui Cole Porter
accenna al pianoforte la sua Let’s Do It , Ernest Hemingway vive gli
anni «poveri ma felici» che poi si condenseranno nel capolavoro Festa
mobile e Pablo Picasso si veste da torero accanto a Marcel Duchamp che
si traveste da Rose Sélavy. Questa Parigi lontana dal proibizionismo
americano e ignara del baratro dove sprofonderà venti anni dopo è
l’incarnazione storica della libertà moderna.
E Picasso, che
giunse qui nell’ottobre del 1900, ha vissuto non solo questa stagione ma
anche quella della Belle Époque, dove la libertà creativa correva come
un fiume lavico per le strade illuminate dall’elettricità e sulle gambe
delle modelle nude che vagavano per gli atelier. E dunque, quanto influì
questa primavera infinita di sensi nella sua radicale trasformazione
della figura umana? È il campo d’indagine della mostra che si apre a
Palazzo Forti ma è anche uno dei nodi della poetica picassiana:
vicinissimo all’astrazione totale ma senza mai abbandonare le forme — il
sodalizio con Georges Braque, per esempio, lo spinse fino a opere come
Il poeta del 1911, oggi nella Collezione Peggy Guggenheim di Venezia,
dove gli oggetti sono quasi irriconoscibili grazie al bisturi del
Cubismo analitico, ma non andò oltre.
Emilie Bouvard, curatrice
della mostra, trova una definizione calzante: «Non abbandonò mai la
tradizione perché in essa cercava l’atipicità. Ne aveva bisogno». Si
delinea allora il «metodo Picasso»: conservare la figura per mostrarne
ogni possibile trasfigurazione , anche grazie a quella libertà di mezzi,
di espressione, di parola e di sensi che Parigi gli dava. Lui, il
pittore che a quattro anni dipingeva «come Raffaello» e che era
bravissimo nel disegno partì dall’Ingres più atipico, «quello del
Ritratto di monsieur Bertin — dice Bouvard — cioè l’Ingres lontano dalle
rappresentazioni epiche. O studiò bene la lezione di Francesco
Primaticcio, l’allievo di Giulio Romano che decorò alcuni ambienti del
castello di Fontainebleau su invito del re Francesco I di Francia».
Perché
Picasso era interessato alle declinazioni della figura umana così come
Cézanne era interessato alla mistica delle cose (delle mele, delle pere,
delle montagne brulle). Le prostitute di Les demoiselles d’Avignon
nascono dalle sensualissime odalische del Bagno turco di Ingres ma hanno
la solidità dei corpi cezanniani e al tempo stesso quella leggerezza in
dissolvenza che Picasso aveva preso dal cinquecentesco El Greco.
«Cézanne
aveva insegnato sia a lui che a Georges Braque la costruzione dello
spazio» commenta Bouvard. Solo che Picasso ci aggiunse una continua
reinvenzione dello stesso soggetto (dalla donna ai bambini).
Si
può dire che la storia della rappresentazione della figura umana sia
stata quella di tante rivoluzioni picassiane, anche nel passato? «In un
certo senso sì — ammette Bouvard —: ogni volta che si individua un nuovo
modo di raccontare la figura, legata alla sensibilità dell’epoca.
Prendiamo per esempio il manierismo del XVI secolo». Cioè i dipinti di
Pontormo o di Rosso Fiorentino: quest’ultimo in particolare, nel 1518,
si vide rifiutare una pala d’altare perché il committente disse che quei
santi «parevano diavoli», tanto i visi erano stravolti. E, secoli dopo,
parlando delle sue Demoiselles , Picasso affermò: «Questa bruttezza è
il segno della lotta del suo creatore per dire una cosa nuova in maniera
nuova»