Corriere 15.10.16
Le famiglie (e i giovani) invisibili
di Maurizio Ferrera
Sulle
questioni di principio (come il matrimonio o le scelte riproduttive) il
tema della famiglia suscita scontri ideologici da cappa e spada. Sul
piano pratico è invece un non-tema, l’invisibile Cenerentola del
welfare. L’Unione Europea colloca il modello d’intervento dell’Italia
nel cosiddetto Gruppo 4 (su quattro: il più arretrato), insieme a
Bulgaria, Estonia, Croazia, Grecia e Spagna. Nel Gruppo 1 sta la
Scandinavia, con il Belgio e il Regno Unito. Questi Paesi sono
caratterizzati da una politica familiare «capacitante», che aiuta i
giovani a formare unioni autonome e stabili, a fare figli, a partecipare
al mercato del lavoro e ad avere un reddito adeguato. Nel Gruppo 4
tutte queste cose sono difficili, per molte fasce sociali enormemente
difficili. La Ue definisce la politica familiare di questo insieme di
Paesi «limitata». Sarebbe più appropriato chiamarla «limitante». Le sue
debolezze pesano infatti come un macigno sulle opportunità dei giovani,
dei genitori e in particolare delle madri italiane. Sul ritardo
anagrafico con cui da noi si comincia un’autonoma vita di coppia e sul
tasso di fertilità stendiamo un velo pietoso. Una anomalia meno
dibattuta riguarda il lavoro. Il 42% delle famiglie con figli è
monoreddito: ad essere occupato è solo il padre. Nel Gruppo 1 la
percentuale è sotto il 30%, la norma è il doppio reddito, con o senza
part-time. Siccome anche in Italia sta crescendo il numero di working
poor (occupati che pur lavorando restano in condizioni di indigenza) non
possiamo certo stupirci se abbiamo il tasso di povertà minorile più
alto della Ue.
Nel modello capacitante lo Stato assicura che la
presenza dei figli non generi impoverimento. Gli assegni familiari sono
universali e il Fisco agevola, soprattutto se la madre lavora (in Italia
il 25% delle madri lascia o perde il lavoro dopo la gravidanza). Per i
redditi più bassi sono previsti crediti d’imposta: denaro che si
aggiunge alla retribuzione. Le capacità non dipendono però solo dai
soldi, conta anche la disponibilità di servizi, a cominciare dai nidi.
Su questo fronte l’Italia ha fatto recentemente qualche progresso, ma
unicamente al Centro-Nord. Nel Mezzogiorno siamo addirittura fuori dal
perimetro del Gruppo 4.
La conciliazione resta un dramma: lo
confermano le lettere e i dibattiti pubblicati sul sito «La 27ma ora».
L’organizzazione del lavoro è troppo rigida, mancano i servizi (o
costano troppo), i carichi domestici gravano ancora principalmente sulle
donne: il 63% delle occupate dichiara di non ricevere nessun aiuto dal
partner.
Per uscire dal modello limitante dobbiamo metterci a
correre. Dopo un inizio promettente, il governo Renzi è tornato alla
cattiva abitudine dei provvedimenti frammentati e temporanei: bonus,
sconti, micro-agevolazioni, detrazioni. Senza una logica riconoscibile
che non sia quella del consenso (con vantaggi, peraltro, tutti da
verificare). Alle politiche capacitanti non si arriva improvvisando,
mettendo e togliendo. Servono interventi coordinati sul fronte dei
trasferimenti, del Fisco, dei servizi, dei congedi parentali,
dell’abitazione, dell’accesso al credito. E naturalmente occorrono
risorse. Per la famiglia il nostro Paese spende meno di 310 euro pro
capite all’anno, la metà della media Ue, un terzo rispetto a Francia e
Germania (dati 2012). Per le pensioni di vecchiaia spendiamo invece più
di 3.700 euro, il valore più alto di tutta la Ue, Paesi scandinavi
inclusi.
Il governo si è impegnato (anche con Bruxelles) a
redigere un Piano nazionale contro la povertà. Il piatto forte dovrebbe
essere l’introduzione di una misura nazionale di garanzia del reddito,
pilastro fondamentale del modello capacitante. Sarebbe stato auspicabile
concentrare su questo fronte le risorse «sociali» della legge di
Stabilità. Invece si è scelto di dare la priorità alle pensioni. Di
nuovo un’occasione sprecata, l’ultima di una interminabile serie.