Corriere 13.10.16
La Napoli del riscatto per l’ultimo Rea
Un’amicizia nel Rione Sanità, un delitto (forse) senza castigo. E una città che vuole ricominciare
di Corrado Stajano
È
l’ultimo ritorno nella sua Napoli amata e disamata questo libro,
Nostalgia , che esce ora e che Ermanno Rea, morto a Roma proprio un mese
fa, non può vedere. Per tutta la vita aveva pensato a quella storia che
in un tempo lontano era successa nel Rione Sanità dove da bambino aveva
vissuto lunghi periodi nella casa dei nonni, in via dei Cristallini,
proprio nel cuore del quartiere, una strada lunga come una lama
affilata. Era nato poco lontano, in piazza Cavour 8, conosceva bene la
Sanità e quella vicenda sanguinante che era venuto a sapere, espressione
di tutto un modo di vivere. Doveva raccontarla, un giorno, diceva a se
stesso, anche per liberarsi dell’antica angoscia. Ma tra timori e
desideri, viaggi, lavoro e altri libri che l’avevano preso aveva sempre
rimandato. Fino all’ultimo.
Nostalgia , «il dolore del ritorno», è
ora quasi il sigillo doloroso di quel che accadde, di grande forza
narrativa, dove il passato si mescola al presente, dove realtà e
immaginazione si sommano con naturalezza. Il romanzo è differente, anche
nello stile, dagli altri suoi romanzi. Non c’è traccia in Nostalgia di
personaggi dal fascino misterioso di Francesca, protagonista del suo
capolavoro, Mistero napoletano , l’amore indicibile, la donna romantica
che si uccide lasciando come testamento una poesia di Rilke, Alcesti ;
non c’è neppure traccia di personaggi realisti come Vincenzo Buonocore,
protagonista della Dismissione , l’operaio sofferente che lavora a
smontare l’Ilva di Bagnoli a cui aveva affidato la vita.
Il libro
racconta la Napoli più cruda e ferina, ai piedi di Capodimonte, la
Kasbah della metropoli, costruita su grotte, anfratti, androni oscuri,
catacombe, strapiombi di tufo, «bassi fatti apposta per ingoiare chi
fugge». È chiamata anche la Valle dei morti, era, o forse è ancora, tra
criminalità e degrado, uno dei posti più derelitti d’Europa. Dove
talvolta spuntano, chissà come, misteriose isole di giardini incantati. E
dove, quasi un ossimoro, nacque Totò, il tragico buffone, e dove
Eduardo De Filippo ha ambientato tante delle sue Cantate e anche Il
sindaco del Rione Sanità .
Che cosa accadde nel quartiere a
turbare la fantasia dello scrittore? Il libro racconta la storia di due
ragazzi, Oreste, detto Malommo, e Felice, nati negli anni Cinquanta del
secolo passato. I guanti e le scarpe di lusso erano a quel tempo la
ricchezza di chi lavorava alla Sanità, apprezzati in tutto il mondo fino
al crollo provocato dalla seriale moda cinese che spense nei vicoli le
luci delle lavoranti a domicilio. La madre di Felice era una guantaia
raffinata ed elegante, «la signora», veniva chiamata. I genitori di
Oreste erano di un’altra qualità, se la cavavano rubacchiando,
litigavano, soprattutto. La madre del ragazzo era una «vaiassa», come
vien chiamata a Napoli la donna che urla.
I due sedicenni
cominciavano presto a impratichirsi nell’arte dello scippo. Felice era
un motociclista provetto. «Si’ nu dio! Nisciuno corre comm’a te!». Sulla
sua Gilera 125 si sentiva davvero un dio. Ma quella moto era il suo
tesoro. Per gli scippi i due ragazzi rubavano Vespe, Lambrette con
targhe contraffatte che poi gettavano nei dirupi. Felice era il pilota,
Oreste, alle sue spalle, il ladro provetto nel rubare, con le sue mani a
uncino, borse, borsette, ciò che capitava.
Oreste, figlio di un
ladro che non aveva fatto carriera, voleva diventare un grande della
malavita. Sentì un giorno che era arrivata l’occasione. Propose al suo
coetaneo di entrar di notte nella casa di un noto strozzino, Gennaro
Costagliola, per rubargli i soldi e i gioielli custoditi in un
nascondiglio di cui era riuscito a conoscere i segreti. Felice era
titubante, silenzioso: «Feli’, te sì ’ncagliato?». L’amico finì per
acconsentire. Andò tutto alla malora. Felice restò ad attendere nello
studio dello strozzino, Oreste entrò nella camera da letto dove erano
custoditi i beni da rubare. Gli era stato assicurato che Costagliola
quella notte l’avrebbe passata lontano da casa. Era nel suo letto,
invece. Felice vide Oreste uscire dalla stanza con le mani sporche di
sangue, aveva ucciso lo strozzino con una statuetta di bronzo. Felice
volle andare a vedere guidato da una torcia, «con il cuore che batteva
lento e lontano». Costagliola «aveva la statuetta di bronzo ancora
accanto alla testa fracassata: la morte splendeva come una fiaccola,
inconfondibile nella turpe impudicizia del lago di sangue che continuava
a spandersi intorno al suo capo».
Il delitto fa da cesura alla
vita di Felice. Rea, con sapienza e ironia, affida il racconto a un
cardiologo in pensione, l’io mascherato dello scrittore che con le turbe
del cuore ebbe grande dimestichezza.
Dopo la notte del delitto
Felice non mangiava più, non dormiva, la depressione l’aveva strozzato.
Era innocente, ma non del tutto di quella morte, complice, piuttosto,
come dimostrare a un giudice che era stato Oreste a impugnare la
statuetta? La sua esistenza era finita, pensava, con lo spauracchio
della prigione. A salvarlo arrivò uno zio, imprenditore a Beirut, che lo
convinse a partire con lui, l’avrebbe fatto lavorare nelle sue aziende
che costruivano dighe, viadotti. Felice si convinse, andò nel Libano e
poi in Egitto, in Liberia, nel Botswana, uno Stato dell’Africa del Sud,
sposò Arlette, divenne un bravo imprenditore. Passarono quarant’anni. Ma
Felice non aveva dimenticato la notte dello strozzino. Un tormento. Le
ferite profonde, anche se vecchie, seguitano a sanguinare. Decise di
tornare. Il Rione era per lui un tarlo roditore. Felice andava a cercare
la sua adolescenza. Un ispettore generale, come Ermanno Rea che ritrova
alla Sanità la Storia, la sua e quella della città dov’è nato,
l’archeologia, la geografia, i Borboni, Gioacchino Murat, l’amata Napoli
99 eternamente sconfitta.
Felice vuol rivedere, chissà perché, il
suo antico amico-gemello, Oreste, diventato un gran boss della
delinquenza, un duro che controlla bande criminali di taglieggiatori,
ricettatori, la prostituzione, e vive come un pascià in una gran casa di
lusso. La vicenda finisce in una nuova tragedia.
Con inescusabile
ignoranza culturale e arretratezza civile e politica il risvolto
editoriale di Nostalgia scrive che il libro è «un omaggio alla Napoli
malavitosa e ribelle del Rione Sanità, ai suoi eroi, alle sue vittime».
In
realtà Ermanno Rea, alla fine della vita è tornato al Rione Sanità per
raccontare non soltanto la Napoli nera, ma anche l’altra Napoli, quella
che ha voglia e necessità di ricominciare, nonostante i laceranti
dolori: il segretario della Sezione comunista Rashid Kemali che si batte
nel nome della legalità sepolta; Adele, la ragazza dei bassi oscuri che
è riuscita a laurearsi in Storia dell’Arte, «la prima archeologa nata
per partenogenesi da un grande sito archeologico (...) lasciato
imputridire nell’incuria più assoluta». E, soprattutto, padre Rega,
prete dei poveri e degli esclusi, parroco di Santa Maria della Sanità,
il Monacone, che è riuscito a creare una comunità di ragazzi, a dargli
coraggio e dignità, a inventare per loro opere e giorni, togliendoli dal
ghetto della malavita. Un prete che crede ancora nei rapporti umani e
nei saperi che possono dar fiato al fare onesto.
È anche il Rione
del riscatto possibile quello narrato da Ermanno Rea, la sua è una
scrittura limpida e fluida, che nasconde con maestria il furore. Non c’è
solo camorra e malavita alla Sanità. Lo scrittore credeva nel detto
inventato da qualcuno, «Lasciateci almeno la speranza nella speranza».