Corriere 13.10.16
Mistero napoletano
Principi pagani e segni della croce ma qui al museo noi siamo di casa
All’Archeologico riapre la sezione Egizia, parte di un progetto che unisce la terra dei faraoni a Pompei
Uno
scrittore racconta la familiarità di questo luogo: «Se non ci fossero
le teche useremmo le posate degli antichi Romani per poi lavarle e
riporle»
di Massimiliano Virgilio
S e un giorno
capitaste a Napoli sappiate che non c’è modo migliore, per sfuggire a
una fastidiosa pioggia autunnale, che rifugiarsi nel Museo Archeologico
Nazionale. E state attenti a non chiamarlo così, perché noi partenopei
siamo usi riferirci alla cinquecentesca ex Cavallerizza che ospita una
delle più importanti collezioni archeologiche al mondo semplicemente con
la parola Museo, senza fronzoli.
Quindi se per strada fermate
qualcuno non chiedetegli la strada per arrivare all’Archeologico, o
peggio ancora quale bus prendere per raggiungere il Mann, perché per voi
potrebbe esserci in arrivo un’occhiataccia di quelle da finir
tramortiti e di colpo trasformati in una statua della Collezione Farnese
che Ferdinando IV volle qui nel 1816 all’inaugurazione del Real Museo
Borbonico. La parola Museo basta. Come se al mondo ne esistesse uno
soltanto, il nostro, l’idea platonica di tutti i musei del mondo, copie
dell’unico, autentico, inimitabile Museo.
Che poi questo problema —
tutto interno alla grandeur partenopea — del rapporto tra originali e
copie costituisce il cuore di ciò che potreste ammirare nella vostra
visita. Ogni volta, passeggiando tra le collezioni sistemate come
branchie di un pesce attorno alla colonna vertebrale dello scalone
monumentale, mi stupisco di come il rapporto tra reperti originali e le
loro imitazioni, per la rinata Sezione Egizia o per quella Farnese già
citata, appaia il motore propulsore di ogni possibile discorso narrativo
che questo luogo ha da offrire. Che sia il volto dell’imperatore Marco
Aurelio giustapposto al tronco di un reperto originale che in realtà
Marco Aurelio non è, o sia una delle tante copie di manufatti egizi
ispirati a originali dispersi, la sua cifra è la postmodernità. Ciò
forse è dovuto al fatto che non esiste disciplina più postmoderna
dell’archeologia, figurarsi a Napoli dove l’estetica della citazione e
del riuso del passato è lo sport nazionale e dove, soprattutto, la
residua distinzione tra alto e basso non ha mai ottenuto grandi
consensi. A ben vedere, Napoli è città postmoderna da ben prima di
quando si è soliti far iniziare la postmodernità (anche perché,
probabilmente, moderna non lo è mai stata) e il Museo Archeologico è il
luogo che più d’ogni altro mette in scena questa sua dimensione. Accanto
a quella religiosa e un po’ pagana, naturalmente, che non manca mai.
Già.
Perché uno dei miei ricordi favolosi di questo luogo risale a molti
anni fa, quando Giovanni Paolo II iniziava a star male. Mi ricordo come
se fosse ieri la gita scolastica, il giro tra le sale ingombre di
sarcofagi con i rilievi di ispirazioni mitologiche, dei mosaici di
Pompei e quelle dedicate alle colossali sculture delle Terme di
Caracalla dove, tra un Ercole e un Toro Farnese, ecco sbucare l’enorme
busto dell’imperatore Vespasiano a cui il tempo ha fatto lo scalpo. Di
fronte a lui una vecchia con un ragazzino, probabilmente suo nipote,
insieme pregano e si fanno il segno della croce e (forse) toccano
l’imponente faccione. Mi ricordo benissimo lo stupore, la confusione:
che cosa c’entra il segno della croce cristiana con il fondatore della
dinastia Flavia?
«Preghiamo il Papa» sussurrò la vecchia a suo
nipote «Recitiamo un Gloria a Dio per Wojtyla». E io proprio non riuscii
a trattenermi: «Ma come Wojtyla? Se la guida ci ha appena detto che si
tratta dell’imperatore Vespasiano, se c’è scritto persino sulla
targhetta…». La vecchia mi guardò scandalizzata, suo nipote altrettanto.
«Ma quale Vespasiano, si vede da lontano che questa è la capoccia del
Papa, è talequale…». E così oggi, al riparo da questa fastidiosa pioggia
autunnale, dopo aver vagato in lungo e in largo tra una mummia di
coccodrillo egizio e il Tempio di Iside, tra reperti preistorici e il
Gabinetto segreto (dove fa sempre così caldo, quasi l’afa voglia
rammentarci di attraversare un ambiente ad alta densità erotica, tra
amuleti itifallici, scene da lupanare e la meravigliosa scultura della
«Venere in bikini»), finisco per ritrovarmi al cospetto di
Vespasiano/Wojtyla a riflettere sul rapporto mistico che i napoletani
intrattengono con le cose, infilando nella scollatura tra originale e
copia ogni possibile significato dal valore tangibile, come se da tutta
quest’archeologia dovesse sempre scaturire qualcosa di utile per l’oggi.
Sono abbastanza convinto, infatti, che se non ci fossero le teche a
impedirlo, noi napoletani useremmo la posateria degli antichi romani per
poi lavarla e rimetterla al suo posto. In effetti, mentre i riflessi di
luce provenienti dal giardino storico mi dicono che la pioggia ha
smesso, mi accorgo che sono proprio talequale: Vespasiano e Wojtyla. Due
gocce d’acqua in questo ennesimo, postmoderno mistero napoletano.